I toni sono quelli di una campagna elettorale alle porte. «Non dobbiamo dimenticarci mai che oggi non siamo in una democrazia», tuona Silvio Berlusconi. «Sulle riforme doveva nascere la terza Repubblica invece tutto si è risolto in una disputa all’interno del Pd: non ci siamo pentiti di esserci chiamati fuori, un anno fa, da questo teatrino». E ancora: «Quello in carica è un governo non eletto, con una maggioranza uscita con il trucco, che si appoggia su 130 parlamentari dichiarati incostituzionali e al Senato su 32 senatori eletti con il centrodestra divenuti stampelle per il governo di centrosinistra».

Quello che ieri ha telefonato alla Festa della libertà di Bologna è un Berlusconi che non si sentiva da tempo, che ha bombardato a tappeto l’azione di Renzi. Non solo sulle riforme ma anche sui risultati dell’azione in campo economico: il Cavaliere non crede al taglio delle tasse annunciato dal premier al quale rimprovera un sostanziale immobilismo nonostante «il calo del petrolio, l’abbassamento del valore dell’euro, gli interventi della Bce e il leggero rialzo delle stime del Pil».

In effetti a Bologna si vota in primavera e si scaldano i motori. Ma un clima così acceso forse non si giustifica solo con la competizione locale. L’anno prossimo sono parecchie le amministrazioni da rinnovare, a partire da Milano, e Berlusconi ha necessità di tornare in prima linea da protagonista. Deve far vedere che il vero leader è lui e non Matteo Salvini, che il centrodestra è a trazione centrista e non lepenista, per dirla con le parole di Renato Brunetta. L’ex premier non è ancora pienamente riabilitato, potrà ricandidarsi non prima del 2018, e deve riprendersi la scena quantomeno per essere lui a dare le carte, cioè indicare il leader del futuro, lo sfidante di Renzi. E questo a pochi giorni dall’uscita allo scoperto dell’imprenditore romano Alfio Marchini, che si è auto candidato a capofila dei moderati mentre Berlusconi lo vede al più come alternativa a Ignazio Marino per il Campidoglio.

Ma dietro alle parole del Cavaliere potrebbe esserci anche una voglia di voto nazionale. Uno scenario ritenuto improponibile fino a poco tempo fa, mentre ormai si è affacciato come ipotesi percorribile. È vero che Forza Italia è un partito fantasma, impreparato a un voto immediato, e che il Cav attenderebbe volentieri il 2018 per riorganizzarsi. Ma non è affatto detto che ce la faccia. Berlusconi ha lasciato il governo nel 2011 e in quattro anni non ha sciolto i nodi interni: chi dopo di lui e con quale schieramento. Ci riuscirà nei prossimi due anni e mezzo? 

O saranno 30 mesi di ulteriore logoramento, in cui altri fedelissimi si tramuteranno in «traditori» assottigliando ancora la pattuglia parlamentare azzurra? Gli indecisi, le schiere di delusi dai voltafaccia e dai tentennamenti del Cavaliere, passato dal Patto del Nazareno a un’opposizione a tutto campo, torneranno a lui o gli hanno voltato le spalle definitivamente? 

I sondaggi al momento premiano Salvini e Grillo, soprattutto i 5 Stelle, e l’ostinato attendismo di Berlusconi potrebbe non essere in grado di invertire la rotta. Il rapporto con la Lega è la variabile chiave di questo periodo: a quali condizioni Salvini accetterà di formare liste comuni con Forza Italia?

Ecco che prende corpo l’ipotesi di un Berlusconi che preme per un voto anticipato. Un voto che farebbe chiarezza nel centrodestra, lasciando al loro destino i vari Alfano e Verdini, ma anche Fitto e Tosi; un modo per ripulire facce e immagine del partito berlusconiano e per costringere la Lega a trovare un accordo in tempi rapidi, senza le scaramucce tipo quella di Bologna dove azzurri e padani hanno già schierato due candidati diversi. Un modo anche per fare uscire allo scoperto tutto il malessere interno a Ncd, dove sembra che il grosso dei militanti non sia affatto schierato con i vertici ma pronto a vestire i panni del figliol prodigo.