È una battaglia complessa, combattuta su vari fronti diversi, quella che da qualche mese contrappone Matteo Renzi ai vertici dell’Unione europea. Uno scontro culminato l’altro giorno nell’attacco diretto di Jean-Claude Juncker al premier italiano. C’è il fronte economico, quello della flessibilità dei conti, sul quale Renzi ha forzato moltissimo la mano ai ferrei custodi dei bilanci comunitari, riuscendo ad approvare una legge di stabilità in deficit che va ad aggravare una situazione contabile molto precaria. Bruxelles ha chiuso un occhio ma l’altro resta vigile perché la crescita economica nel nostro Paese continua a essere un miraggio lontano, nonostante i buoni propositi. Renzi vuole infrangere la politica dell’austerità imposta dalla Germania, ma accanto all’azione di rottura occorre introdurre meccanismi di sviluppo i cui frutti sono ancora lontani.

Oltre al fronte dei conti pubblici, è aperto il fronte strategico e diplomatico, dove Francia e Germania non vedono di buon occhio il ritrovato protagonismo italiano in teatri controversi come la Libia e la Russia. Su ilsussidiario.net di ieri il professor Sapelli delineava una “campagna d’Italia” attuata dal ritrovato asse Parigi-Berlino di cui Napoleone-Juncker sarebbe un’avanguardia. Accanto a questo c’è poi un fronte che riguarda i rapporti di forza tra i maggiorenti dell’Unione, e Renzi si considera in diritto di battere i pugni in quanto non si sente sufficientemente tutelato dall’azione di Lady Pesc, Federica Mogherini.

Ma esiste anche un fronte tutto interno al nostro Paese. È la prima volta che un leader politico di sinistra si scaglia con tanta decisione contro Bruxelles: questa pratica finora era stata prerogativa del centrodestra e delle forze populiste, cioè leghisti e grillini. Sono loro i campioni delle polemiche contro le burocrazie continentali, gli sprechi, le lobby, l’impoverimento indotto dall’introduzione dell’euro. Nel centrosinistra invece si schieravano gli europeisti senza se e senza ma, come Prodi, Ciampi, Letta, Napolitano.

Con Renzi la musica è cambiata. Dietro la mossa ostile a Bruxelles s’individua una precisa strategia di politica interna. Ovvero la volontà di saggiare il terreno per conquistare voti anche in quelle aree di opinione oggi presidiate saldamente da leghisti e 5 Stelle. Le elezioni più recenti (in Francia, nei Land tedeschi, in alcuni Paesi che un tempo gravitavano nell’orbita del Patto di Varsavia) dicono che il lepenismo anti-Bruxelles è in crescita vertiginosa, benché nel momento cruciale (cioè ai ballottaggi) si realizzi a loro danno una sorta di conventio ad excludendum.

I sondaggi dicono che le intenzioni di voto al Carroccio sommate a quelle dei seguaci di Grillo e Casaleggio superano largamente il 40 per cento. I sentimenti anti-europei sono in crescita anche da noi. E un politico privo di scrupoli come Renzi, per nulla legato alle vecchie liturgie e alle retoriche unioniste che avevano il loro campione in Romano Prodi, vi si colloca in coda. Il premier-segretario anziché issare i vessilli a 12 stelle per contrapporsi ai populismi si mette a inseguirli. Sfida la Lega Nord e il Movimento 5 stelle sul loro stesso terreno.

Se deve nascere il Partito della nazione, che la nuova formazione abbia anche una piccola impronta nazionalista. Renzi perderà qualche voto a sinistra, ma rischia di guadagnarne di più andando a togliere il terreno sotto i piedi alle forze tradizionalmente favorevoli ad abbandonare l’euro. Così, ancora una volta, la spregiudicatezza si dimostra la vera cifra dell’azione politica di Renzi, che non esita ad abbandonare l’europeismo a ogni costo per conquistare consensi altrove.