A volte le polemiche fanno comodo. Sembra di finire nell’occhio del ciclone, si catalizza l’attenzione di amici e nemici, si monopolizza il dibattito pubblico, e il risultato vero è che si concentra l’attenzione generale su un tema, magari importante, cruciale, riuscendo però a togliere dai riflettori altre questioni. Matteo Renzi è un maestro in questa attività di depistaggio mediatico. Apre un fronte, lo impone all’attenzione generale, ne fa un crocevia di antagonismi e passioni. Magari ne aggiunge un altro per essere più sicuro. Sul resto, silenzio.



La settimana che si apre culminerà giovedì con l’approdo in aula della proposta di legge Cirinnà sulle unioni civili. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ieri ha detto che le adozioni devono essere un diritto. Altra legna sul fuoco. Per la terza carica dello Stato è questo il dibattito di giornata. Nell’agenda politica non c’è altro di particolarmente urgente in questi giorni, oltre alle dispute sul licenziamento degli statali fannulloni alimentato dalle gaffe televisive di Marianna Madia.



A Renzi fa comodo che vengano coperte le magagne che circondano il suo governo. I sondaggi sulle riforme costituzionali dicono che il consenso sull’operato dell’esecutivo è tutt’altro che plebiscitario. Il premier-segretario del Pd ha legato la propria sopravvivenza politica al referendum che in autunno sarà chiamato a mettere il sigillo sui cambiamenti istituzionali targati Maria Elena Boschi: non sarà una consultazione sul merito delle modifiche, ma sulla persona del presidente del Consiglio. Le premesse non sono delle migliori.

Sul fronte interno, il Pd è profondamente scosso dall’ingresso ufficiale di Verdini nella maggioranza sancito dal voto parlamentare sulle riforme accompagnato dalla distribuzione di un po’ di poltrone nelle commissioni alla pattuglia dell’ex braccio destro di Silvio Berlusconi. Non è solo uno spostamento al centro dell’asse del governo: è l’ennesimo schiaffo alla minoranza del Partito democratico. Di fatto il governo è retto da un tripartito, il Pd più Alfano e Verdini, ex berlusconiani. Ma le tensioni interne riguardano lo stesso voto sul ddl Cirinnà, sul quale il premier-segretario lascerà libertà di coscienza. E pure le candidature alle prossime amministrative, dove la sinistra appare sempre più lacerata.



Il versante economico deve tenere conto di un dato allarmante reso noto ieri da Eurostat: la produzione industriale in Italia ha toccato un calo che non si registrava dal 2010, quando l’inquilino di Palazzo Chigi era il Cavaliere. Sono passati Monti, Letta e ora Renzi e l’economia reale ristagna peggio di quando c’era Silvio. Peggio di noi ha fatto soltanto la derelitta Grecia. Qui la macchina del consenso mediatico renziano si guarda bene dall’intervenire.

L’avvicendamento dell’ambasciatore italiano presso l’Ue, con la scelta senza precedenti di nominare un politico di estrazione manageriale in sostituzione di un diplomatico di carriera, ha ottenuto due risultati paralleli: ha indispettito le feluche e irrigidito Bruxelles che non ama le bizzarrie dei partner. L’eco dell’attacco del presidente Juncker a Renzi non si è ancora spenta anche perché nessun leader dei 28 si è sognato di dare solidarietà al nostro premier.

L’isolamento dell’Italia cresce nell’Ue. E paradossalmente Renzi non riesce neppure a fare breccia tra gli elettori euroscettici, uno degli obiettivi della sua svolta anti-Bruxelles. Il voto populista sembra restare attaccato a Grillo e Salvini. E in tema di nomine, la promozione di Carlo Calenda è andata di pari passo con l’incarico all’amico Marco Carrai di sovrintendere l’attività dei servizi segreti. 

Insomma, i fronti di scontro aperti per il governo sono moltissimi. Meglio discutere sul rossetto della Madia.