Il rimpasto, l’arrivo in aula della legge Cirinnà, il vertice con Angela Merkel, la fiducia sulla questione banche. La settimana che si chiude era annunciata come cruciale per l’esecutivo di Matteo Renzi. Il bilancio che il premier ne trae è in sostanziale pareggio. Non si può dire che ne esca pienamente rafforzato perché i segnali che arrivano dal Parlamento e dall’asse Berlino-Bruxelles lasciano ancora ampi margini di incertezza per le prospettive renziane. Anzi, questi fattori fanno intendere che l’orizzonte governativo ormai si sta restringendo e non è azzardato ipotizzare un voto anticipato nel 2017.

Il rimpasto sbilanciato a favore del Nuovo centrodestra consolida soltanto in apparenza la maggioranza. Nel governo non sono entrati gli uomini di Verdini, ricompensati nelle commissioni. Ma l’apertura così smaccata al partito di Alfano proprio alla vigilia del Family day mostra tutta la necessità che ha Renzi di tenersi buono il fronte centrista perché gli sfugge la presa sul Pd. La minoranza interna è sempre più insoddisfatta, il suo leader Pierluigi Bersani deve ripetere che non lascerà il Pd: significa che l’insofferenza lievita.

Ogni richiesta a Renzi di “fare qualcosa di sinistra” viene aggirata. Che l’esame della legge Cirinnà sia slittato alla settimana entrante è un’altra prova di debolezza del premier che non sa su quale maggioranza può contare. Ogni voto a sostegno ricevuto dalle truppe ex-azzurre di Denis Verdini viene imputato a Renzi dalla minoranza interna in toni quasi razzistici: l’ex braccio destro di Berlusconi è “antropologicamente diverso” dal Pd, non ne possiede il dna. Renzi non è neppure a metà del percorso che si prefigge, è a Palazzo Chigi da fine febbraio 2014: riuscirà a barcamenarsi altri due anni in queste condizioni?

Il vero obiettivo che il premier si è posto è il referendum del prossimo autunno sulle riforme. Quella è la chiave di volta del suo mandato, non le amministrative a Roma, Milano, Torino, Napoli. Il referendum e la campagna mediatica preparatoria saranno le vere primarie dove metterà alla prova il nuovo Pd. Ipotizziamo che le urne gli diano ragione e che le riforme Boschi trasformino il volto alle istituzioni italiane. A quel punto Renzi aspetterà davvero un altro anno e mezzo per rispettare la scadenza naturale della legislatura o non cercherà – lui così attento agli umori dell’elettorato – di surfare sull’onda giusta e accelerare i tempi delle elezioni politiche?

Ma c’è un ulteriore indizio a mostrare che lo scenario di urne generali anticipate al 2017 non appare più così inverosimile. Ed è la battaglia che Renzi sta conducendo con l’Europa sulla flessibilità nei conti, che non riguarda solo le risorse da versare alla Turchia. 

Sulla flessibilità il premier ha replicato all’attacco di Jean-Claude Juncker ricordandogli che la sua elezione alla guida della Commissione Ue con i voti congiunti di socialisti e popolari è stata decisa proprio sul terreno di un allentamento del rigore di bilancio. Renzi chiede flessibilità sui conti e in cambio è disposto a chiudere con le polemiche populiste sull’Ue: questo è stato il segnale mandato ad Angela Merkel.

Da presidente del Consiglio, Renzi ha fatto due manovre in deficit simboleggiate prima dagli 80 euro (a proposito, che fine hanno fatto le promesse di estenderli a pensionati, precari e partite Iva?) e adesso dal taglio delle tasse sulla prima casa. Il rigore non abita più a Palazzo Chigi. Da Bruxelles l’euroburocrazia tenta di imporre rigide regole di bilancio ma Renzi svicola. Allargare ulteriormente la spesa pubblica nonostante il debito astronomico (sull’altare del quale è stato sacrificato Silvio Berlusconi nel 2011): questo è ciò che interessa al premier.

E quand’è il classico periodo in cui i politici spendono senza risparmiare altrove? Alla vigilia delle elezioni. Una manovra pre-elettorale non chiede sacrifici, non taglia, non rende impopolare il governo. Maggiore flessibilità, cioè meno rigore nella prossima legge di stabilità, equivale a una potentissima arma propagandistica in una campagna elettorale che appare sempre meno eventuale.