Il vecchio Giorgio Napolitano è ancora il garante dell’Italia, oltre che di se stesso visto che fu lui a piazzare Matteo Renzi a Palazzo Chigi ed è ancora lui il più deciso difensore del pacchetto di riforme istituzionali che sarà sottoposto al giudizio popolare il 4 dicembre. L’ex presidente della Repubblica non può lasciare che l’ultimo miglio del percorso della nuova Costituzione sia gestito in modo così approssimativo: ne va della sua stessa credibilità e del ruolo di garanzia mantenuto verso i partner europei. Così si è deciso a dare una clamorosa tirata d’orecchi — l’ennesima — al premier, costringendolo con tono ultimativo a cambiare registro nella campagna verso il referendum. Renzi ha dato prova di avere inteso.



La rampogna di ieri ha dell’incredibile. I riti delle liturgie politiche impongono di non parlare mai apertamente ma di lanciare messaggi, suggerire discretamente, offrire consigli magari non richiesti. Nei discorsi ufficiali il non detto è importante come ciò che viene pronunciato e raramente il vero destinatario delle parole enunciate è qualcuno che le sta effettivamente ascoltando. Per dirla con un proverbio popolare, si parla a nuora perché suocera intenda. In questo i vecchi democristiani e i vecchi comunisti sono rimasti maestri insuperabili.



Per questo è clamoroso che ieri Napolitano abbia stravolto la grammatica istituzionale e per una volta abbia detto pane al pane. Si stava rivolgendo alla scuola di formazione politica del Pd, quindi giocava in casa, e a un certo punto non è riuscito a trattenersi. “Nella campagna verso il referendum non si è partiti bene — ha tuonato —: si sono commessi molti errori che hanno facilitato la campagna del No”. Il presidente emerito ha dato atto al premier di aver tentato (maldestramente) di correggere il tiro, tuttavia “l’impostazione precedente è durata per un periodo troppo lungo e ha facilitato chi era per il No e contro Renzi”.



Un grido d’allarme fortissimo e una sgridata senza precedenti. D’altra parte, il duello televisivo con il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha colmato la misura. È vero che il cattedratico non ha fatto una grande figura, ma il messaggio è che nello schieramento del Sì l’unico a esporsi è ancora e sempre il presidente del Consiglio. Il giorno prima, all’apertura della campagna elettorale, era stato sempre lui a parlare. E nei prossimi giorni è previsto un interminabile tour renziano in tutte le piazze d’Italia. Nonostante i precedenti ammonimenti a evitare la personalizzazione del voto, c’è sempre un unico uomo al comando. Magari non dirà più che se perde si dimette, ma comunque la sovraesposizione del premier consolida la prospettiva da “dopo di me il diluvio”. 

Renzi ha accusato il colpo. A un comizio a Pesaro, ieri sera ha incassato i rimproveri: “Oggi Napolitano mi ha anche un po’ criticato, ma è bello, giusto e utile ricevere critiche da chi ha saggezza e esperienza. Se Napolitano con la sua saggezza e capacità mi ha fatto delle critiche sono felice di farne tesoro. È vero, io ho sbagliato a giocare il futuro del governo sulla riforma costituzionale ma ho sbagliato in buona fede. Ho sbagliato ma capita a chi fa le cose”. E poi se l’è presa con i grillini.

Se il presidente emerito perde la pazienza la faccenda è seria. Napolitano si sta spendendo come nessun altro (Renzi a parte) a sostegno del Sì al referendum. Lo ha promesso alle cancellerie europee, lo deve alle ultime scelte della sua permanenza al Colle. Aveva puntato su Renzi le ultime speranze di passare alla storia non solo come il primo presidente rieletto, ma anche quello che aveva legato il suo mandato alla più profonda trasformazione dell’assetto istituzionale. Non può permettersi che il quarantenne di Rignano sull’Arno mandi tutto a monte per la sua sprovvedutezza politica.