Ormai la manfrina di Matteo Renzi sulla legge Cirinnà è evidente. Dietro un apparente ammorbidimento sulla stepchid adoption e la garanzia della libertà di coscienza per i cosiddetti “catto-dem”, si nasconde un disegno chiaro: fare approvare il testo così com’è, senza modifiche o stralci. È impensabile che Pietro Grasso possa negare il voto segreto, o tutti i pezzi grossi del Pd difendano la legge senza se e senza ma, o ancora venga presentato l’emendamento “canguro” che farebbe piazza pulita dell’ostruzionismo leghista, contro il volere del premier-segretario. Il quale si profonde in piccole aperture che dovrebbero tranquillizzare Angelino Alfano mentre nei fatti spiana la strada al provvedimento.



Il Renzi bifronte si spiega con la crisi del suo Pd, sul quale Matteo-Giano non ha più la presa che aveva al congresso. La difficoltà di chiudere le primarie ne è lo specchio fedele. Tra qualche mese si vota nelle prime quattro città italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino) più Bologna, e a parte il capoluogo piemontese — dove la riconferma di Piero Fassino è inevitabile — a sinistra regna la divisione. Finora si sono svolte le primarie soltanto a Milano e non è stato un viatico per Renzi: il suo candidato ha vinto ma le percentuali degli sconfitti sono alte e addirittura si sta coagulando un fronte che va da Civati a Sel al grido “Noi Sala non lo votiamo”.



Prospettiva analoga a Roma, dove il renziano Giachetti è debolissimo e il fronte delle candidature estremamente frastagliato, con il rischio di fratture a sinistra. A Napoli la ricerca dell’alternativa sia a de Magistris sia a Bassolino è quasi farsesca. A Bologna il sindaco Merola può fare un secondo mandato ma è molto contestato nel partito.

Di contro il centrodestra dopo un lungo travaglio lancia segnali di una ritrovata unità. Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia hanno raggiunto l’accordo su Parisi, Bertolaso e Lettieri e manca poco per altre candidature unitarie a Torino e Bologna. Su Parisi converge pure il Nuovo centrodestra, per replicare lo schema che regge in regione Lombardia. E proprio il nome di Stefano Parisi, ex city manager di Gabriele Albertini come Giuseppe Sala lo fu di Letizia Moratti, potrebbe essere una scelta azzeccata. Se Renzi con Sala cerca l’acrobazia di conquistare i voti moderati senza rompere con la sinistra “arancione”, i milanesi potrebbero rispondergli scegliendo un moderato “tout court”.



Se poi si aggiunge la roulette dei ballottaggi, le prospettive per Renzi si fanno ancora più incerte. I candidati democratici che al secondo turno dovessero vedersela con un grillino rischiano grosso: il centrodestra non si lascerebbe sfuggire l’occasione di sgambettare il Pd. E non consideriamo l’eventualità che a Roma si candidi davvero anche l’ex sindaco Marino. 

Aggiungiamo invece i fantasmi che si agitano nel giglio magico renziano: gli spettri — come ha rivelato il Foglio — di pezzi grossi del Pd (Prodi, D’Alema, Letta) che brigano a Bruxelles per mettere il rottamatore sotto tutela.

Per sottrarsi almeno in parte a questo percorso minato Matteo Renzi ha un’unica strada: blindare l’accordo con la minoranza interna al Pd e soprattutto con l’ala dei vendoliani e dei fuoriusciti dal Pd come Fassina e Civati, possibili e pericolosi concorrenti. E la blindatura passa per l’approvazione della legge Cirinnà. Un provvedimento tutt’altro che moderato, che divide il Paese ma che consente a Renzi di fare finalmente “qualcosa di sinistra”. E di limitare i danni alle prossime amministrative.