Dalla Toscana, nuova fucina dei dirigenti democratici, alza la testa un nuovo aspirante leader. Dopo Enrico Letta e soprattutto Matteo Renzi, ecco spuntare Enrico Rossi, governatore regionale in carica. Rossi ha ufficialmente annunciato che al prossimo congresso del partito si presenterà come antagonista del segretario in carica, Renzi, e il suo tentativo non sarà di semplice contrapposizione quanto di superamento del dualismo pro o contro il premier-segretario.
Era da tempo che Rossi meditava su questa mossa. Dallo scorso settembre si rincorrevano voci sulla sua discesa in campo nazionale; chiacchiere mai veramente prese sul serio perché il presidente della regione Toscana non è un nome di grande richiamo, né un «signore delle tessere democratiche», né un giovane brillante e rampante. Nella stagione — inaugurata da Silvio Berlusconi — dei partiti personali, costruiti attorno al carisma (o presunto tale) di un leader, Rossi segnerebbe un cambio di rotta. Basta con l’uomo solo al comando, ritornano i vecchi tempi dei partiti strutturati attorno a un programma piuttosto che a una persona.
Per questo la scelta di tempo è fondamentale per capire l’azzardo di Rossi. Il governatore toscano getta il guanto di sfida nel bel mezzo del caos in cui versa il Pd sulla legge Cirinnà. Un caos in cui la minoranza interna, per l’ennesima volta, vede frustrate le proprie posizioni in nome dell’alleanza di governo con il Ncd. Perché il voto di fiducia che consentirà all’Italia di legiferare sulle unioni civili, anche omosessuali, serve per blindare il voto del Pd, non per acquisire i consensi delle truppe di Alfano. Voto che la sinistra interna darà turandosi il naso, chiudendosi gli occhi e tappandosi le orecchie.
I vari Bersani, Veltroni, Letta, D’Alema e malpancisti vari del Pd non potranno che piegare la testa e dare la fiducia. Non possono fare cadere il governo su un provvedimento che loro stessi (con contenuti parzialmente diversi) avevano trasformato in una bandiera identitaria. Ma al tempo stesso mandano un segnale inequivocabile a Renzi: da ora nel partito sarà guerra senza quartiere. Rossi si candida con largo anticipo rispetto al congresso, di cui non c’è ancora una data ma che non potrà comunque tenersi prima di un anno, la primavera prossima, dopo il referendum sulle riforme.
Ora c’è ufficialmente uno sfidante, uno che viene dalla stessa terra del premier, che lo conosce molto bene, che non l’ha mai ossequiato più dello stretto necessario e che non gliene farà più passare una. La misura è colma per la Ditta Pd, costretta a ingoiare un rospo ogni volta che si trattano materie delicate. Se non si muovono adesso, il rischio è di diventare sempre più marginali. Che è il vero disegno di Renzi: concentrare su di sé e sui propri fedelissimi il potere all’interno del Pd, e ridurre sempre più i margini di manovra per quei rompiscatole delle minoranze.
Ma i vecchi leader che mandano avanti Enrico Rossi fanno un secondo calcolo. Visto il calo di consensi di Renzi, la perdita di credibilità in Europa e l’ormai palese inefficacia dell’azione di governo in campo economico, il premier-segretario potrebbe cedere alla tentazione sempre più forte di votare nel 2017 anziché nel 2018 per evitare un ulteriore anno di logoramento. In questo caso, la candidatura alla segreteria di Rossi equivale a una candidatura anche per eventuali primarie verso la futura premiership. È un chiaro avvertimento che la Ditta invia a Renzi: non credere che sia scontato il cammino verso la riconferma a Palazzo Chigi. Sempre che i pacchetti di tessere e la forza dei malumori dell’apparato democratico possano alzare il profilo del personaggio Rossi. Che al momento è un profilo molto basso.