Se c’è un momento della vita politica in cui i partiti devono mostrarsi uniti, questo è la campagna elettorale. Mostrarsi uniti non significa esserlo realmente, ma quantomeno darne l’impressione. Offrire all’elettorato un’idea di coesione, affiatamento, di un organismo che converge verso un obiettivo comune: il successo alle urne. Questa fase di avvicinamento alle elezioni amministrative di giugno è segnato invece da un fenomeno clamoroso, un “cupio dissolvi” che investe entrambi gli schieramenti principali.

Sia il Partito democratico sia il centrodestra sono lacerati. Le leadership appaiono prive di alternative: Matteo Renzi e Silvio Berlusconi non hanno ancora avversari interni in grado di prenderne il posto. Tuttavia la minoranza del Pd e gli alleati di centrodestra come Lega Nord e Fratelli d’Italia remano contro, pongono ostacoli, rallentano quanto più possibile la marcia dei leader. Invece che dipanarsi nei momenti di relativa tranquillità, lontano da appuntamenti elettorali, le critiche esplodono ora come se le urne facessero da catalizzatori di malumori e insoddisfazioni.

Le dichiarazioni di D’Alema, Bersani e Bassolino sono un problema per Renzi, come pure le voci secondo cui potrebbero moltiplicarsi liste a sinistra del Pd a Milano, Roma, Napoli. E il premier-segretario non ha intenzione di smussare i toni ma li inasprisce, come se quelli da combattere fossero i rivali interni e non berlusconiani e grillini. Lo stesso vale per le posizioni di Salvini, che dopo aver dato un via libera formale a Guido Bertolaso ora lo contesta come fosse un cavallo di razza improvvisamente imbolsito. E costringe Berlusconi a un’operazione senza precedenti: non tanto primarie per scegliere un nome, ma delle “confirmarie” per ratificare una candidatura già individuata.

Di questo passo, l’obiettivo delle prossime consultazioni si sposterà sempre più: non tanto conquistare i municipi, ma sostituire i due capi degli schieramenti. Trasformare elezioni amministrative, sia pure molto importanti visto che si devono scegliere i sindaci delle maggiori città del Paese, in un referendum sui leader dei partiti. 

In qualche modo è un effetto dell’Italicum, che dopo anni di bipolarismo ora spinge verso il bipartitismo dei ballottaggi. È un gioco più pericoloso per Berlusconi che per Renzi: un leader a fine carriera, senza più grande capacità di attrazione, insidiato da un personaggio (Salvini) molto più giovane e determinato. Viceversa, i vari esponenti della Ditta Pd che annaspano nel tentativo di sopravvivere alla rottamazione non sembrano in grado di demolire il piedistallo renziano. Il premier appare a suo agio nel corpo a corpo con i compagni di partito: contando proprio sull’effetto Italicum (che condanna all’irrilevanza chiunque manchi l’obiettivo del secondo turno), spinge verso una situazione estrema da “dentro o fuori”. Chi non è con Renzi è contro di lui.

Ma la battaglia interna a centrodestra e centrosinistra non è a somma zero. Quello che gli oppositori interni non considerano a sufficienza è che nel panorama politico di casa nostra ormai esiste un terzo polo consolidato, che non perde colpi. I 5 Stelle potrebbero arrivare al ballottaggio a Torino e Roma, e stanno meditando di sostituire l’incolore candidatura di Milano. Stanno provando a cavalcare quel “complotto per farci vincere” evocato da Paola Taverna per prima. Vedono che l’obiettivo di conquistare qualche sindaco di prestigio non è impossibile da raggiungere, e che le liti interne ai blocchi tradizionali potrebbero agevolarli. Aggiungiamo gli ammiccamenti di Salvini, che al ballottaggio non avrebbe problemi a votare un grillino anti-sistema e anti-euro, e addirittura di Berlusconi, che apprezza la candidata romana del M5s che lavorò con l’avvocato Previti. Ed ecco l’antica saggezza del detto: tra i due litiganti…