Direzione del Pd, largo del Nazareno, oggi, ore 18. Luogo e ora della resa dei conti tra Matteo Renzi e gli oppositori interni. Settimane di ostilità e guerriglie troveranno davvero un punto di chiusura? Molto difficile. Il premier-segretario farà prevalere la sua linea perché ha i numeri dalla sua, ma non è ai numeri che bisogna guardare quanto al livello di conflittualità della riunione. Che sarà determinato in gran parte dall’atteggiamento renziano: tentativo di mediazione oppure l’aut aut “o con me o contro di me”? Lo spettro della scissione è dietro l’angolo. E anche se non si materializzasse, resta la minaccia delle liste di disturbo a sinistra del Pd (e non solo a sinistra, vedi Bassolino a Napoli) per le prossime amministrative.
Renzi liquida le contestazioni interne come “piccole beghe”. Lui non caccia nessuno, ha ripetuto anche ieri ai giovani democratici, mentre chiede fedeltà e lealtà in vista delle elezioni. In realtà le questioni poste da Bersani, D’Alema, Cuperlo, Speranza, Letta sono sostanziali. La democrazia interna al partito e la strategia della maggioranza di governo a partire dal caso Verdini. Che Renzi difende con vigore: senza i suoi voti l’esecutivo non sta in piedi. Con il consueto fare sprezzante lo ha ammesso apertamente anche ieri: “Un metodo infallibile per non avere in maggioranza Alfano e Verdini è vincere le elezioni, cosa che nel 2013 non è accaduta. Sembra si siano svegliati tutti insieme, ma Alfano e Verdini hanno votato la fiducia anche a Letta e Monti”. Se Bersani non ha vinto, nemmeno Renzi è passato per il suffragio popolare e ora avanza a colpi di voti di fiducia, due al mese. Forse un po’ troppi, ha concesso, ma indispensabili. Ed è lì che incassa il sostegno di Verdini, ufficialmente esterno al governo ma ufficiosamente membro permanente effettivo.
Dal tono di Renzi trapela un certo nervosismo. Negli ultimi giorni il fuoco di sbarramento contro la vecchia guardia del Pd è stato rafforzato da Debora Serracchiani e Maria Elena Boschi: la prima ha criticato il modo con cui è stato gestito l’ingresso nell’euro (e a gestirlo fu prima il Prodi premier dell’eurotassa e poi il Prodi presidente della Commissione Ue), la seconda ha dichiarato che si può mettere in discussione anche le riforme costituzionali del 2001, quelle degli enti locali introdotte dalla sinistra con una maggioranza di quattro voti. Renzi lega le proprie sorti all’esito del referendum confermativo sulle sue riforme, tuttavia sa che le amministrative sono a forte rischio. I ballottaggi saranno un terno al lotto: uno scenario non di fantascienza è che la nuova coppia Salvini-Meloni possa votare la grillina Raggi a Roma in cambio di qualche consenso a cinque stelle per Parisi a Milano in nome del comune antirenzismo. Perdere Roma e Milano sarebbe una Caporetto per il Pd.
C’è la mina vagante del referendum anti-trivellazioni promosso dalle regioni rosse che però la segreteria democratica vuole fare fallire. Tra i maggiori sostenitori c’è il governatore pugliese Michele Emiliano, e chissà se è un caso che sia scoppiato proprio in questi giorni lo scandalo delle ferrovie regionali pugliesi, non certo una novità perché molti giornali ne hanno parlato da anni, eppure soltanto ora esso diviene una vergogna intollerabile per il governo. E sta ritornando alla ribalta il caso di Banca Etruria su cui pendono gravissime accuse di bancarotta, nel quale adesso è indagato anche il padre del ministro Maria Elena Boschi. La quale in Parlamento aveva detto: «Se mio padre ha sbagliato deve pagare. Se le accuse fossero confermate, se ci fossero stati favoritismi nei suoi confronti, mi dimetterei». Altra legna sul fuoco delle polemiche Pd e altri bastoni tra le ruote di Renzi.