Passerà un’altra settimana prima che la direzione del Partito democratico si riunisca per la famosa “resa dei conti” annunciata da Matteo Renzi. Ed è passata una settimana da quando essa doveva riunirsi. L’incidente stradale in Spagna in cui sono morte le studentesse universitarie all’estero per l’Erasmus e le stragi jihadiste di Bruxelles hanno fatto passare in secondo piano gli sgambetti della minoranza interna al Pd. Renzi ha potuto accantonare le schermaglie intestine per volare a Bruxelles, a Lampedusa e da oggi negli States per un vertice sulla sicurezza nucleare. E nel momento in cui si presenterà alla direzione, davanti alla gravità degli scenari internazionali, le contestazioni brandite dalla Ditta appariranno poco più che paturnie di politici di seconda fila in cerca delle luci della ribalta.

In realtà la lista dei nodi da sciogliere per Renzi è lunga e non liquidabile come normale dialettica interna. Si parte dal referendum sulle trivelle. Si continua con il caso Verdini. L’accidentata campagna elettorale verso le amministrative. Il dossier Etruria che coinvolge direttamente il volto più rappresentativo del governo, cioè il ministro Maria Elena Boschi. I richiami dell’Unione europea sulla sostenibilità delle nostre manovre di bilancio e sulla crescita del debito pubblico. E poi ci sono le questioni di politica estera sulle quali l’esecutivo appare silente se non latitante: la Libia, le indagini sulla morte di Giulio Regeni per le quali l’Egitto mena l’Italia per il naso fino alla situazione dei due marò, in mano all’India da quattro anni. Un anno con Monti a Palazzo Chigi, uno con Letta e due con Renzi. Il quale con questi dossier mostra proprio di non sapere come muoversi.

Invece che affrontare i problemi, il premier preferisce prendersela con la fronda interna. E ingaggiare un guru americano per la campagna elettorale sul vero voto che segnerà il futuro del governo: quello per il referendum sulle riforme che si svolgerà in autunno. L’aver arruolato un consulente come Jim Messina, che fu il capo della campagna elettorale di Obama nel 2012, la dice lunga su quanto Renzi tenga all’appuntamento del prossimo autunno. Ma alza il velo anche sulla grande paura del premier, cioè il rischio tutt’altro che remoto di non farcela.

L’esito referendario non appare scontato. La maggioranza che sostiene il governo ha qualche crepa mentre le minoranze non perderanno l’occasione di tentare lo sgambetto. Basta vedere la disinvoltura con cui alcuni oppositori parlamentari si muovono verso le amministrative. Per esempio Salvini, che un giorno spara su Alfano ministro ma il giorno dopo presenta liste assieme al Nuovo centrodestra in tutti i comuni del Nord Italia — con rarissime eccezioni — nei quali si voterà. 

Oppure i grillini, che dopo aver schierato candidati e candidate glamour ora accantonano anche la presunta “purezza” di voler correre sempre e ovunque da soli e si accingono — ai ballottaggi delle comunali — a incassare i consensi di leghisti, fratelli d’Italia, lepenisti e destrorsi vari e forse pure di qualche frangia di Forza Italia. E nonostante la sufficienza con cui Renzi guarda al voto di giugno, le amministrative “tireranno la volata” al referendum sulle riforme.

Renzi sta cercando un colpo d’ala, un’idea vincente per recuperare il terreno che si sta facendo rosicchiare da sotto i piedi. Magari sarà un’altra trovata da 80 euro o un bonus da 500. Ormai il governo non li nega più a nessuno.