A volte ritornano. Ventiquattro anni dopo l’esplodere della stagione di Mani pulite, uno dei quattro pm-moschettieri di allora riguadagna la ribalta mediatica. È Piercamillo Davigo, eletto ieri al vertice dell’Associazione nazionale magistrati. Un’altra toga successivamente aggregata a quel pool, Francesco Greco, uno dei giudici più preparati contro la corruzione politica e i reati finanziari, è in ballottaggio per prendere in mano la procura di Milano. In altri palazzi di giustizia, come a Potenza, gli inquirenti affondano i denti nelle carni vive dell’intreccio tra politica e affari.

Coincidenze? Oppure è il segnale che le toghe hanno davvero messo nel mirino il governo Renzi? Il premier non ha dubbi: buona la seconda. La sua “narrazione” è martellante. I poteri forti complottano. La magistratura vuole riprendersi la supremazia sulla politica mantenuta nel ventennio berlusconiano e ora minacciata da un governo riformista. Le intercettazioni rese pubbliche falsano tanto i contorni delle vicende giudiziarie quanto gli scenari politici. 

La sindrome da accerchiamento, insomma, si sta impadronendo di Palazzo Chigi, la stessa che ha accompagnato il Cavaliere. È curioso accostare le dichiarazioni di ieri dei due leader. Berlusconi ha definito la situazione politica italiana “un vero e proprio regime” che prepara “una compressione delle nostre libertà assolutamente inaccettabile”. Per Renzi “la politica è una cosa bella e non accetteremo mai di renderla subalterna a niente e nessuno. C’è stata un’offensiva mediatica, ogni giorno usciva il nome di un ministro. Tutto casuale, naturalmente”. L’ironia maschera la convinzione del complotto.

Il governo si trova in uno dei momenti più difficili di questi due anni, preso in mezzo tra gli insuccessi nella politica economica, le gaffe in politica estera, la perdita di consensi nel cammino verso le elezioni amministrative e l’offensiva giudiziaria. La ricetta di Renzi per uscire dall’angolo è la stessa di Berlusconi: una legge-bavaglio sulle intercettazioni. Peccato che nessuna vestale della libertà di stampa sia ancora insorta contro il despota, a differenza di quanto accadde con il Cavaliere. Nello scontro ingaggiato da Renzi con la magistratura, le toghe stavolta sono da sole, non godono della copertura mediatica che le protesse quando il bersaglio si chiamava Silvio. 

Con Davigo, il premier ha cercato la polemica come un pugile che per allontanarsi dalle corde deve ingaggiare un testa a testa con il rivale, menando anche all’aria se necessario. I giudici — ha detto Renzi — devono parlare con le sentenze, nei tribunali, non facendo uscire verbali destinati ai giornali che poi “pescano in un anno e mezzo di intercettazioni la frase più a effetto”. Così la controffensiva dell’esecutivo partirà dalla riesumazione della riforma del processo penale congelata da mesi al Senato, al cui interno si trova la delega al governo in materia di intercettazioni: il giro di vite sulla pubblicazione dei verbali viene definita “un fatto di civiltà”, altro che legge bavaglio come ai tempi della martellante campagna del Pd contro il Cav.

Davigo ha chiesto più rispetto. Ha messo paletti. Ma Renzi ha tutte le intenzioni di allargare il terreno di scontro con la magistratura. È convinto che l’offensiva giudiziaria sia solo agli inizi, che nel mirino ci siano scelte come quella di Marco Carrai alla cyber-security saldata con le resistenze dei “poteri forti” verso le riforme costituzionali. Uno che di campagne mediatico-giudiziarie se ne intende, come Paolo Mieli (direttore del Corriere quando scoppiò Tangentopoli), ha profetizzato l’altra sera in tv che si prepara un’estate rovente di inchieste e trascrizioni. Per Palazzo Chigi meglio giocare d’anticipo e mettere i pm nel mirino fin da subito.