Scontri, spaccature, lotte interne, e soprattutto senza bussola. È il quadro del centrodestra di queste settimane che ha il suo specchio più a Roma che a Milano. Al nord (liste per Milano, giunte regionali della Lombardia e della Liguria, solo per elencare le situazioni più eclatanti) tutto fila liscio, Berlusconi sta con Salvini ed entrambi stanno con Alfano nella normalità più assoluta. Da Roma in giù invece è il caos. In Forza Italia la divisione geografico-politica è palese: da una parte i “nordisti” Toti, Gelmini, Matteoli, Romani, favorevoli all’asse con la Lega; dall’altra il “partito romano” con Tajani, Polverini, Fiori, Letta, rafforzato dal “cerchio magico” delle amazzoni berlusconiane (Pascale, Rossi, Bergamini) che non ne vogliono sapere.
Berlusconi ha lanciato Guido Bertolaso come “miglior candidato per Roma” lo scorso febbraio. È vero che Salvini e Meloni l’avevano appoggiato e poi si sono sfilati; ma è altrettanto vero che in questi due mesi il Cavaliere ha sostenuto Mister Emergenze a parole, mentre nei fatti è apparso più volte sull’orlo di scaricarlo. Non è il modo migliore per costruire un profilo vincente, al punto che l’ex capo della Protezione civile in oltre 60 giorni (ne mancano una quarantina al voto) non è riuscito nei sondaggi a toccare il 10 per cento e viene pronosticato come quinto dietro a Raggi, Giachetti, Meloni e Marchini.
Salvini e Meloni hanno giocato una partita rischiosa: il tentativo era sfruttare la debolezza di Forza Italia per mettere in disparte Berlusconi. Dietro la corsa al Campidoglio c’è la corsa alla leadership del centrodestra che il segretario padano si sente in pugno. Il sigillo arriverebbe se la Meloni giungesse al ballottaggio: sarebbe la prova che si può arrivare lontano anche senza gli irrilevanti voti di Forza Italia. Anche perché al secondo turno gli azzurri difficilmente convergerebbero su Virginia Raggi, visto tutto quello che i grillini hanno detto in questi giorni a difesa di un magistrato anti-Cav come Piercamillo Davigo.
Dopo estenuanti tentennamenti, la scelta di Bertolaso dice che Berlusconi fa invece la scommessa opposta. Lui è il leader del centrodestra, senza di lui il centrodestra non esiste. Dietro alla rottura romana con Salvini c’è la volontà di dargli una lezione che non è soltanto istintiva o dettata – come la dipingono certi osservatori in modo troppo caricaturale – dal “cerchio magico” femminile. Una lezione sonora, a costo di perdere Roma e di sentirsi nuovamente ripetere le accuse di fare un grosso favore a Renzi. Lo scriveva ieri Alessandro Sallusti direttore del Giornale: “Meglio perdere nelle urne che perdere in libertà, meglio saltare un giro piuttosto che annacquarsi in avventure poco comprensibili”.
Insomma, Roma è data per persa. Ma Berlusconi in realtà punta alle elezioni politiche, che verosimilmente saranno tra un anno dopo il referendum sulle riforme. E in vista di quell’appuntamento deve rimettere in riga Salvini. A lui dice due cose: non solo che non esiste centrodestra senza Berlusconi, ma che non esiste vittoria elettorale senza voto dei moderati. Sono questi suffragi che il Cavaliere ha perso e che deve riconquistare, riformando una sorta di Ppe con Forza Italia come fulcro. Per questo motivo Berlusconi rifiuta a Roma (ma non al Nord) gli accordi con Lega e Fratelli d’Italia. Più comprensibile sarebbe convergere su Alfio Marchini, come vorrebbe una parte degli azzurri che compongono il “partito romano”: tuttavia il costruttore ha già l’appoggio dell’Ncd. E per il Cav in questa situazione scegliere Alfano a scapito di Salvini (rinvigorito dai risultati elettorali della vicina Austria) rappresenterebbe un mezzo suicidio.
Avanti con Bertolaso, dunque, e ognuno per conto suo: Meloni, Storace e Marchini. Il Cavaliere che non sopporta il “teatrino della politica” si ritrova invischiato in un teatrino inestricabile, in cui potrebbero saltare sia l’alleanza con la Lega sia lo stesso suo partito. Salvini e Meloni hanno interrotto le trattative per candidature comuni con gli azzurri a Torino. E in Forza Italia si prepara una tregua armata in vista della resa dei conti che sarà consumata dopo le elezioni.