Nell’ultimo Renzi è comparso un po’ del vecchio Pci. Nella sprezzante rivendicazione di diversità del suo governo nel quale “chi sbaglia se ne va”, a differenza che nel passato, riecheggia quell’idea di superiorità morale della sinistra che prima Palmiro Togliatti — non per altro soprannominato “il Migliore” — e poi Enrico Berlinguer impressero al partito comunista. I tempi sono cambiati, dice oggi il premier. E si riferisce a pochissimi anni fa, quando a Palazzo Chigi stava il suo grande rivale Enrico Letta e ministro della Giustizia era il prefetto Annamaria Cancellieri.
Renzi non cita Letta ma la Cancellieri sì, e la telefonata partita per sollecitare la scarcerazione della figlia dell’amico Salvatore Ligresti. Anche in questo caso, come per Federica Guidi, una intercettazione compromettente resa di dominio pubblico. Ma il paragone non regge: per la Cancellieri in ballo non c’erano appalti e affari di famiglia per lo sfruttamento petrolifero, quanto “intenti umanitari” a favore di una detenuta passata dalla cella ai domiciliari.
Fatto sta che Renzi chiese le dimissioni di Cancellieri ieri come le ha imposte oggi a Guidi. La nuova generazione se ne va. E chi rimane fa quadrato. Perché la mossa di scaricare l’ex titolare dello Sviluppo economico consente al premier di tutelare il ministro Maria Elena Boschi. Il giglio magico si compatta, qui la superiorità morale raggiunge vette inarrivabili. Anzi, intoccabili.
Il disprezzo verso la minoranza del Pd è sempre più evidente. Ieri Renzi alla scuola di formazione interna ha detto che nel suo partito non esistono più correnti ma “spifferi, anzi spifferucci che stanno spesso insieme più per convenienza che per le idee”. Ma la cosa vale anche per lui. A Milano, per esempio, il Pd ha imposto un discusso moderato come Giuseppe Sala guardandosi dal replicare lo schema di governo nazionale. Il Nuovo centrodestra è stato lasciato libero (meglio: caldamente suggerito da Matteo) di allearsi con Lega e Forza Italia a favore di Stefano Parisi pur di consentire al Pd di non perdere le frange della sinistra meneghina che fa riferimento al sindaco uscente Giuliano Pisapia.
Questa scelta è stata dettata dalle idee o dalla convenienza? Soltanto in apparenza la risposta è la prima. Perché dietro la strana mossa del partito di Angelino Alfano c’è un calcolo preciso. Il Pd guadagna molto di più se tiene lo “spiffero” di Pisapia piuttosto che il soffio del Ncd. In una città dove la classe borghese guarda largamente al centrosinistra, Sala è più tutelato da un Pd che non gioca a fare il centrista. La vittoria di Sala sarebbe un viatico per Renzi, che non si trova in uno dei momenti di maggior fulgore. E la permanenza di Renzi a Palazzo Chigi, che verrebbe rafforzata da un successo elettorale a Milano, è l’unica garanzia che gli alfaniani hanno per continuare a gestire un po’ di potere.
Sembra paradossale, ma non lo è. A Milano il Ncd si schiera con Lega e Forza Italia per far vincere il centrosinistra perché questo è l’unico modo per restare al governo a Roma, vero obiettivo degli ex berlusconiani. Formalmente il Ncd salvaguarda lo schema di governo della regione Lombardia, conferma una collocazione centrista (a fianco di Salvini definirlo un partito moderato è un po’ troppo) ma soprattutto evita al Pd una clamorosa rottura a sinistra, consentendogli di compattare l’elettorato milanese.
Ormai la scelta di Alfano è chiara. Il ruolo subalterno rispetto a Renzi gli calza a pennello, fare da stampella esterna gli va benissimo finché dura questa fase “tripolare” in cui in Parlamento ogni voto è determinante per la sopravvivenza dell’esecutivo in carica. E si può fare da stampella anche prendendosi un minimo di libertà (vigilata). L’unico rischio è che Parisi ce la faccia davvero o che Sala commetta qualche imprevedibile scivolone. Ma gli elettori del Ncd al ballottaggio, nel segreto dell’urna, sapranno bene come orientare i propri voti.