Piccolo ripasso di storia, maestra di vita. I giorni di voto in Italia sono sempre stati decisi a fisarmonica, secondo le (presunte) convenienze di chi stava al governo. Prendiamo gli ultimi vent’anni delle politiche. Nel 1994 le urne furono aperte per due giorni, il 27 e 28 marzo, formalmente per venire incontro agli ebrei per i quali Pasqua cadeva domenica 27. Di fatto il governo Ciampi pensava di favorire la gioiosa macchina da guerra di Occhetto, ma chi vinse fu Berlusconi. Nel ’96 debuttò il Mattarellum e si passò alla sola domenica: un sol giorno bastò alla sinistra per vincere. Anche nel 2001 si votò solo di domenica ma all’orario di chiusura i seggi erano affollati di elettori dell’ultim’ora e cinque anni dopo il governo Berlusconi, dopo aver introdotto il Porcellum, nella speranza di coronare un’insperata rimonta riaprì le urne del lunedì. Gli andò male.

Nel 2008 a Palazzo Chigi c’era Prodi che a sua volta tentò di sfruttare anche il primo giorno della settimana per invertire l’orientamento dei sondaggi sfavorevoli, ma regalò la vittoria al centrodestra. Tre anni fa si votò sempre su due giorni in una situazione di grande incertezza. Ma nel 2014 per le europee ci si limitò alla sola domenica 25 maggio che segnò il trionfo di Renzi, il quale portò il Pd a sfondare il tetto del 40 per cento partendo da una posizione di netto vantaggio.

Se c’è una tendenza che si può cogliere, è che il governo in carica (cui spetta decidere la data delle elezioni) preferisce stare su due giorni se ha bisogno di recuperare, mentre si accontenta della sola domenica se gli basta confermare i sondaggi favorevoli della vigilia. Anche oggi questa chiave di lettura può essere utile per capire cosa si cela dietro il balletto delle date avviato dall’esecutivo Renzi. Il quale ha bisogno di superare un’evidente impasse e vorrebbe scegliere l’opzione “lunga” per le comunali di giugno e — novità — probabilmente anche per il referendum sulle riforme di ottobre. Lo ha detto ieri in un’intervista Angelino Alfano, ministro dell’Interno.

Naturalmente esiste sempre una motivazione-paravento per giustificare quello che in quasi tutta Europa si svolge in un giorno solo: per esempio le festività ebraiche o il rischio dell’astensionismo. Non importa che l’astensionismo non sia determinato dalle ore di apertura dei seggi ma dalla (s)fiducia che gli elettori sentono di riporre nella consultazione. Né ha un qualche peso la valutazione delle spese connesse alla consultazione. È chiaro che chiudere le urne la domenica alle 22 (o 23) e procedere subito allo scrutinio costa meno che prolungare le operazioni anche il lunedì, a maggior ragione se si considera che il sistema elettorale prevede il ballottaggio. 

Ma l’ammontare delle voci di spesa — e del relativo eventuale spreco — non valgono davanti alle convenienze politiche, come dimostra la recente scelta di isolare il referendum sulle trivelle in una domenica di aprile anziché accorparlo con le amministrative già previste a giugno; tanto più che sono chiamate a rinnovare i sindaci le più popolose città italiane e un quarto dei capoluoghi di provincia. Una fetta molto consistente di elettori.

Nel governo si gioca di sponda, come sul tappeto verde del biliardo: Renzi propone di votare due giorni alle amministrative, e gli fa eco Alfano che lancia l’ipotesi di ripetere lo stesso schema al referendum. Niente è ancora deciso, ma la tendenza è chiara: anche se costa, anche se non porta voti più di tanto, meglio prolungare il più possibile il tempo di apertura delle urne. Bisogna convincere i cittadini che l’appuntamento elettorale è di quelli importanti, bisogna insistere con il tam tam mediatico che a ogni Tg e notiziario radio non parla altro che di andare a votare. E possibilmente votare “bene”.