La campagna d’inverno del generale Renzi è partita: obiettivo il referendum sulle riforme. Il via è stato dato a Firenze, e non poteva essere altrimenti perché si tratta della città dove la mobilitazione è meno difficoltosa. L’esercito è schierato. Si parla di diecimila comitati sparsi su tutto il territorio nazionale con almeno centomila militanti arruolati a tempo pieno per compiere l’opera di convincimento. Cinque mesi di tempo per garantire la maggioranza di “sì” al progetto Boschi e, di conseguenza, la sopravvivenza politica di Matteo Renzi. Che, lo ha ribadito anche ieri, lega la sua avventura politica all’esito della consultazione costituzionale. Se perde, va a casa.

La personalizzazione voluta dal premier avrà un effetto scontato: più che un referendum sulle riforme, sarà un referendum su Renzi. Quelli del “sì” e quelli del “no” si schiereranno non sui contenuti del pacchetto riformatore, ma sulla volontà di tenere in piedi il governo oppure no. E siccome l’esito è tutt’altro che scontato, il presidente del Consiglio ha preferito lanciare quella che nel ciclismo è una “volata lunga”: partire da lontano, sorprendere gli avversari, costringerli a rincorrere. E sperare di avere in corpo più birra degli altri. 

Renzi ha di fronte un fronte composito, che va dalla Lega ai 5 Stelle passando per il grosso di Forza Italia (che pure una parte dei provvedimenti li aveva votati al tempo del Nazareno) e nel segreto delle urne non sono da escludere sgambetti della minoranza interna al Pd che nei mesi scorsi ha lottato strenuamente — invano — per modificare taluni parti della riforma. Ieri Pierluigi Bersani ha detto che i suoi non giocheranno scherzi al premier-segretario. “Abbiamo votato sì in Parlamento e votiamo sì… purché non venga fuori un sì cosmico contro un no cosmico”, sono state le sue parole: non proprio quelle di un militante pancia a terra. Miguel Gotor ha posticipato a dopo le amministrative la decisione sul “sì” ai quesiti. Il che conferma quanto il voto sia tutto politico e per niente sulla nuova Costituzione. D’altra parte, confermano i bersaniani, la personalizzazione è stata voluta da Renzi.

Questo fronte ha un vantaggio: potrebbe uscire rafforzato dalle urne amministrative. Il Pd rischia grosso quasi dappertutto: a Roma e Napoli si ipotizza addirittura una clamorosa esclusione dai ballottaggi mentre a Milano il centrodestra è in forte rimonta; solo a Torino la preoccupazione è contenuta. Renzi ha perciò necessità di creare un effetto trascinamento al contrario: anziché fare campagna per le amministrative, cioè l’appuntamento più vicino, e poi proseguire fino all’autunno sull’onda del successo, si rende necessario enfatizzare la voglia di cambiamento degli italiani che presumibilmente si manifesterà nel referendum d’autunno e farla esprimere già alle elezioni di giugno. 

Ecco il perché di un così massiccio schieramento di truppe cammellate per il “sì” referendario, le quali faranno il porta a porta vecchia maniera, batteranno piazze e mercati, con l’ingrato compito di far dimenticare il probabile esito infausto delle amministrative.

A ogni buon conto, Renzi non vuole farsi cogliere alla sprovvista. E così, proprio nel giorno in cui ha lanciato la lunghissima campagna referendaria, il premier ha stretto un patto di ferro con Denis Verdini accettando una candidatura comune per il sindaco di Cosenza. Il Pd ha preferito l’accordo con Ala rispetto al Ncd. Vanno bene gli eserciti di “missionari del sì”, ok alla strategia del mago obamiano Jim Messina, ma per garantirsi i risultati voluti meglio coprirsi le spalle come una volta. Con solide intese elettorali, blindate anche con qualche “impresentabile”.