È il giorno del “fattore L”. Lodi e Livorno, due città i cui sindaci sono alle prese con guai giudiziari. Quello lombardo (Pd) è stato arrestato in un mare di polemiche perché la misura cautelare sarebbe eccessiva rispetto alle accuse che gli vengono rivolte; quello toscano (M5s) è indagato per la gestione dei rifiuti, la stessa che aveva portato male al suo predecessore mentre ora investe lui. Due anni fa gli aveva portato bene, oggi è travolto dalla nemesi. A Lodi i cinquestelle scendono in piazza per chiedere le dimissioni del primo cittadino incarcerato, a Livorno invece Beppe Grillo manda a dire al suo uomo “vai avanti”. Magari il messaggio è partito dalla villa al mare del comico, che si trova proprio in provincia di Livorno, a Marina di Bibbona.

Politica e giustizia, dunque. Siamo tornati a 20 anni fa, con le toghe scatenate. La novità di ieri è l’avviso di garanzia a un sindaco grillino: come dire che i magistrati non guardano in faccia a nessuno. Chiunque si occupa della cosa pubblica finisce nel mirino della giustizia, indipendentemente dal colore politico. È un segnale preciso anche verso i cinquestelle che si pongono come unici paladini dell’onestà e della moralità: la magistratura gli fa sapere di non avere bisogno di difensori. Sa benissimo tenere la politica sotto scacco da sola, senza necessità di avvocati d’ufficio.

Per i grillini torna attuale un vecchio detto coniato da Pietro Nenni: a forza di fare i puri, si trova sempre uno più puro che ti epura. È davvero paradossale il doppiopesismo dei campioni della morale, i fustigatori di chi ha le “mani sporche” che difendono il loro sindaco nei guai mentre chiedono che se ne vada quello di Lodi.

Ma l’indagine di Livorno non deve lasciare tranquillo nemmeno Matteo Renzi. L’inchiesta toscana significa che i giudici non allentano la presa sui politici. Non si tratta di tenere sotto tiro soltanto il Pd, il quale amministra la maggior parte delle amministrazioni locali. Il Pd resta l'”attenzionato” numero uno non solo per la sua responsabilità politica nelle periferie italiane, ma soprattutto per le riforme che sta mettendo in campo tra cui proprio quella della giustizia. Difficile che il caso Livorno spinga i grillini verso il Pd: i cinquestelle resteranno garantisti con i loro e giustizialisti con il resto del mondo. Hanno il giacobinismo nel Dna. E resteranno alternativi al Pd e a chiunque altro. Loro corrono ovunque da soli.

Renzi sa perciò che non troverà sponde da quelle parti nemmeno in circostanze come questa. Non potrà sfruttare il contraccolpo delle inchieste per calamitare i voti di qualche grillino in Parlamento. Dovrà insistere a parlare di bonus, di pensioni anticipate, di tasse alleggerite, di finto “volemose bene” con i partner europei per fare dimenticare i guai del suo partito con la giustizia. E cercare di guadagnare consensi per il referendum di autunno nonostante le crescenti incognite che si addensano sulle urne di giugno.

Insomma, la campagna elettorale la stanno facendo i giudici più che lo stuolo di candidati, decine di migliaia di persone che danno l’assalto a quasi 1400 municipi in tutta Italia. Sembra un segnale di riscossa della politica, un segnale di partecipazione contro il messaggio implicito nelle ondate di provvedimenti ordinati dai gip: e cioè che la politica è cosa sporca. Ma l’altra faccia della medaglia è che una pletora di candidati significa anche confusione su confusione, come capita a Napoli dove il sindaco in carica, Luigi de Magistris, si presenta con 15 liste a sostegno e il suo principale sfidante, Gianni Lettieri (centrodestra), ne schiera 12: nel capoluogo campano si contano 46 liste e oltre seimila candidati per 48 posti da consigliere. Sembra di essere a un concorsone del pubblico impiego. Alla faccia del bipolarismo e del tripolarismo, e pure del partito della nazione.