Più segretario che premier, Matteo Renzi sta chiudendo un tour nelle principali città dove si vota domenica. Dopo aver detto che di queste elezioni non gli interessa granché in quanto il governo non sarebbe in discussione, ha fatto preparare un programma di viaggio per confortare i suoi candidati, o almeno quelli che hanno meno problemi. Perché il leader del Pd non fa una campagna elettorale a tappeto ma molto mirata. Predilige i posti al chiuso, come teatri e auditorium al riparo dalle contestazioni, e località dove la vittoria è più vicina. Come Torino, Bologna, Trieste. Perché Milano e Roma (stasera) sono tappe davvero obbligate.
Anche Silvio Berlusconi faceva così: diceva che da presidente del Consiglio era talmente impegnato a cambiare l’Italia da non poter dedicare eccessivo tempo alle urne amministrative, salvo poi cambiare idea davanti ai sondaggi. Renzi alterna opinioni con una certa frequenza, l’ultima volta è successo a proposito della partecipazione dei due marò alla parata del 2 giugno annunciata su Twitter e successivamente smentita su pressione delle autorità militari. E come il Cavaliere, anche il Rottamatore cavalca con passione il ritornello dei politici di professione che devono andare a casa. L’ha ripetuto ieri: con la riforma del Senato, un parlamentare su 3 dirà addio alla poltrona (in realtà ne restano 730 sugli attuali 945).
La differenza rispetto a Berlusconi è che questi quando diceva di voler sfoltire la fauna politica era trattato come un aspirante dittatore, mentre Renzi è un sincero democratico. La sorte dei politici sarà uno dei temi dell’imminente campagna referendaria. L’entourage del premier sta già lanciando il tormentone: se vince il “no” vanno a casa Renzi e la Boschi, se invece prevale il “sì” diremo addio a Di Maio, Meloni, Grillo, Fassina, Salvini, Speranza, Brunetta, Civati, Toti, Landini, Bindi, Bersani e magari pure Davigo. Resta un uomo solo al comando, ma il suo nome non è Fausto Coppi.
Al premier-segretario non piace il voto amministrativo. Troppa competizione, troppi temi di breve respiro, troppi richiami all’esperienza fiorentina di cui Renzi vorrebbe spogliarsi per liberarsi dall’aria del provincialotto di successo. Ma soprattutto troppo poche occasioni di sparare raffiche di promesse su tasse, pensioni e lavoro e scarse possibilità di narrare la sua Italia avviata verso un risorgimento incipiente. Nelle città devi parlare di sicurezza, di viabilità, di periferie, magari anche di tubi dell’acquedotto, e non te la puoi prendere con la minoranza interna.
Il tempo della resa dei conti con Bersani, Cuperlo e soci non è ancora giunto. Le sconfitte delle amministrative verrebbero messe tutte sul conto del premier-segretario, non su quello di chi gli ha remato contro da dentro il partito. Il terreno per regolare i conti sarà quello del referendum. Ma anche in questi giorni Renzi testa la strategia che lo porterà al voto di ottobre: la personalizzazione estrema.
Tutto il programma, le ambizioni, l’immagine del Pd sono riflessi nello specchio renziano, come si è visto a Milano in una serie di appuntamenti in cui il premier ha recitato se stesso. Lui rivendica gli incarichi politici a tempo (salvo beffeggiare i grillini se Virginia Raggi propone gli assessori a scadenza), lui si autorottamerà nel 2023 (sempre che tutto gli vada dritto), lui si dichiara orgogliosamente arrogante trasformando un difetto in una categoria politica, lui richiama l’attenzione generale cantando “O mia bela Madunina”. Mancano soltanto le barzellette.