Il Pd perde Roma e Torino, tiene a fatica Bologna e per un soffio Milano. Matteo Renzi ha sempre detto che il voto di ieri riguardava le città e non il partito. Ha ragione. Se c’è un leader che dovrebbe dare le dimissioni, non è il presidente del Consiglio ma il segretario del Nazareno. Ma trattandosi della stessa persona, qualche domanda seria il premier-segretario se la dovrebbe porre anche sul suo operato a Palazzo Chigi.
Ogni città fa storia a sé. Ma la tendenza antigovernativa è chiara. A Roma, dopo i disastri di Marino e Alemanno, Virginia Raggi è andata sul velluto. Gli elettori hanno premiato massicciamente i grillini fuori dai giochi, non Renzi che — obbligando alle dimissioni il sindaco Pd — ha tentato maldestramente di camuffare i guasti di un sistema di cui il suo partito era primattore. A Milano il centrodestra ricompattato ha sfiorato il successo contro Beppe Sala, candidato renziano che si è mosso meglio dopo il primo turno che prima.
Ma è il voto di Bologna e soprattutto Torino che deve preoccupare Renzi. Aggiungiamo Trieste, capoluogo di una regione governata dalla vicesegretaria democratica Serracchiani, che è tornata al centrodestra. Merola e Fassino sono stati sindaci apprezzati, lontani da chiacchiere, indagini ed errori marchiani. Eppure uno ha dovuto sudare per la riconferma, l’altro è riuscito a perdere oltre 10 punti di vantaggio del primo turno e a farsi staccare nettamente. Significa che il centrodestra non ha avuto remore a votare i 5 Stelle nei ballottaggi. Quando si personalizza lo scontro come ha fatto Renzi, la conseguenza è che al ballottaggio gli avversari si coalizzano.
Significa anche che sono caduti i pregiudizi verso i grillini: non la si potrà più chiamare antipolitica. È un voto di protesta che però resta nell’alveo della politica, e la conferma di de Magistris a Napoli va nella stessa direzione. Non si potrà più fare l’equazione tra protesta e forze antisistema. E tra gli antisistema perde terreno la Lega Nord, che a Milano non ha premuto sull’acceleratore dopo essere stata doppiata da Forza Italia, e a Bologna non è riuscita a convincere i moderati. Ma soprattutto è clamorosamente simbolica la sconfitta leghista a Varese, patria di Bossi e Maroni. Salvini ha detto che gli italiani non credono più a Renzi: vero, ma non credono nemmeno a lui.
Roma e Torino, dove il Pd ha ammesso una “sconfitta netta senza attenuanti”, fanno suonare un altro campanello di forte allarme verso Renzi: il Pd al ballottaggio con i 5 Stelle perde. È uno scenario che si potrebbe riproporre al prossimo voto nazionale con l’Italicum, che appunto prevede un confronto al secondo turno tra i primi due partiti.
Renzi è così sicuro che gli italiani preferirebbero lui a Di Maio? I progetti del premier-segretario sono tutti rimessi in discussione, a cominciare dall’esito del referendum, minacciati dalla convergenza di leghisti e berlusconiani sui 5 Stelle. Ma non viceversa, come dimostrano le sconfitte di Milano, Bologna e Varese. E anche il centrodestra dovrà chiedersi qual è il vantaggio di queste strategie.