C’è un leader dell’Unione europea che si frega le mani ogni giorno che passa dal voto sulla Brexit. Il suo nome è Matteo Renzi. Appena conosciuto l’esito del voto, ha diramato una prevedibile nota di amarezza e rammarico. Dopo di che, il premier italiano ha preso ad agitarsi. Sabato era a Parigi per un vertice bilaterale con François Hollande. Oggi sarà a Berlino per un trilaterale con il medesimo presidente francese e la cancelliera Angela Merkel. Ieri il segretario di stato americano John Kerry era a Roma per incontrare il premier israeliano e naturalmente ha visto anche il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.
Insomma, da quando Londra ha detto bye-bye alla matrigna Ue assistiamo a un grande attivismo del governo italiano. Da un lato, c’era da giurarci. Renzi cavalca la Brexit per accreditarsi nell’Unione e scalare le posizioni lasciate libere dagli elettori della perfida Albione. Sui canali Rai, ormai agli ordini di Palazzo Chigi, un’ondata di intellettualismo scandalizzato ha salutato con orrore il voto popolare britannico. Ma secondo l’antico costume italo-partenopeo, Roma “chiagne e fotte”. Si lamenta dell’abbandono deciso dal Regno Unito ma contemporaneamente si dà da fare per occupare subito gli spazi a disposizione.
Il disegno è chiaro: riposizionarsi in Europa per togliersi dalle sabbie mobili in cui il Pd e Renzi si sono impantanati appena una settimana fa con il voto dei ballottaggi. Decaduto in Italia ma indispensabile in Europa: dopo aver calcato le orme di Silvio Berlusconi con il Jobs Act e il taglio dell’Ici, ora il premier-segretario sembra seguire le tracce di Enrico Letta e Romano Prodi che cercavano a Bruxelles, Parigi e Berlino l’autorevolezza che non riuscivano a consolidare in patria.
Che Renzi sia spregiudicato e arrogante, ormai si sa. Ma questa è un’occasione davvero unica. L’obiettivo è recuperare credibilità con la Germania dopo aver forzato la mano sulla flessibilità dei conti e il deficit: se l’operazione andasse in porto sarebbe un grande successo. Una delle lezioni del voto britannico è chiara: piuttosto che l’austerità dell’Ue, meglio la fuga in avanti della Brexit. È la stessa logica del “tanto peggio tanto meglio” sottesa alle vittorie dei grillini in Italia e di Podemos in Spagna: chiunque altro sarà sempre meglio delle attuali élites. A Bruxelles qualcosa deve cambiare ed è assai probabile che nei prossimi mesi gli uomini piazzati dalla Merkel a guidare l’Unione non staranno troppo a sottilizzare sugli sfondamenti del deficit, sul Pil che arranca o sui presunti aiuti di stato camuffati da incentivi o riduzioni fiscali.
L’obiettivo di Renzi è proprio quello di sfruttare la palese debolezza della Commissione e delle istituzioni europee per forzare la mano sulle sue richieste. Ottenere un sostanziale via libera sull’annunciato taglio fiscale non accompagnato da un corrispettivo taglio di spese (cioè la classica ed ennesima manovra in deficit di questo governo) significa presentarsi al referendum costituzionale di ottobre con credenziali molto migliori che non l’usurato ritornello della riduzione delle spese della politica attraverso il taglio dei senatori.
L’inattesa Brexit e l’insperabile indebolimento di Bruxelles potrebbero consentire a Renzi di portare a casa flessibilità e sconti fiscali senza neppure trattare con la minoranza interna e le frange centriste di Alfano e Verdini, che oggi appaiono come coloro che tengono in pugno l’esecutivo. In realtà, se Renzi a suo tempo avesse spalleggiato l’iniziativa di Cameron che non voleva Juncker alla guida della Commissione Ue, invece di incaponirsi a sostenere Federica Mogherini a qualsiasi prezzo, oggi l’esecutivo comunitario non sarebbe guidato da un portaordini di Angela Merkel e probabilmente molti argomenti dei pro-Brexit sarebbero stati smontati. Ma di questo passato è meglio fare perdere ogni traccia. E cavalcare con volto triste questo inimmaginabile regalo dell’insipienza britannica.