Niente maglietta azzurra, nessun volo per la Francia, archiviati i sogni di cavalcare i successi sportivi: Matteo Renzi mostra la faccia seria e contrita. C’è la strage di Dacca. E ci sono i guai interni al partito e al Paese. Ieri il premier si è fatto intervistare da Sky per lanciare fondamentalmente un messaggio: l’Italicum non si tocca. La legge elettorale è legata a filo doppio con le riforme, dunque con il referendum dell’autunno prossimo, e un suo ritocco è la merce di scambio che molti sottopongono al premier per garantirgli un appoggio o quantomeno una distaccata campagna elettorale.
Il ritocco sarebbe cosa da poco in Parlamento: basterebbe modificare la parte che assegna il premio di maggioranza alla coalizione e non più al singolo partito, come previsto dalla legge entrata in vigore il 1º luglio. Farebbe comodo ai centristi di Alfano e Verdini (ma anche agli uomini di Fitto e Tosi) che in questo modo continuerebbero ad avere una rappresentanza parlamentare altrimenti a rischio sparizione. Così pure alle frange della sinistra extra-Pd che potrebbe trovare un accordo con Renzi salvo poi voltargli le spalle come in questa legislatura. E rappresenterebbe il nuovo terreno di contatto con Forza Italia. Silvio Berlusconi non chiederebbe di meglio che pattuire un Nazareno-bis per lasciare navigare il Rottamatore in tutta tranquillità in cambio della non belligeranza verso il partito-azienda: un’espressione mai così attuale dopo il ritorno in prima linea di Gianni Letta, Confalonieri, Ghedini e il commissariamento straordinario affidato al senatore Alfredo Messina, vice presidente vicario di Mediolanum.
In realtà, il primo beneficiario della correzione di rotta sul premio di maggioranza sarebbe Renzi stesso. Oggi infatti, secondo i sondaggi, l’Italicum non incoronerebbe il segretario Pd ma il grillino Luigi Di Maio. Il ballottaggio tra i primi due partiti anziché tra le coalizioni porterebbe molti a votare contro il premier. Il ballottaggio di Roma ne è la prova: due elettori della capitale su tre hanno ragionato in base al “tanto peggio tanto meglio” e hanno spedito al Campidoglio quella bella statuina di Virginia Raggi. Insomma, per Renzi aggiustare la legge elettorale rappresenterebbe i proverbiali due piccioni presi con una fava: blindare il risultato referendario e ampliare la base elettorale in vista del primo Parlamento monocamerale.
Invece il premier va in tv e dice che non ci sono i numeri per modificare l’Italicum. Tesi strana, visto che mezzo Parlamento non chiede altro. È un modo per dare fiducia a Maria Elena Boschi, il ministro delle Riforme che non vuol sentire nemmeno accennare a un ammorbidimento della sua legge. Ma c’è pure un grande azzardo di Renzi, l’ennesimo, che ama la politica quanto il poker. Il premier scommette sul crollo grillino.
Roma è stata l’apoteosi a 5 Stelle e sarà l’inizio della loro fine: a Palazzo Chigi ne sono certi. La paralisi dell’amministrazione capitolina è imbarazzante: a due settimane dal ballottaggio non c’è ombra della giunta nonostante gli annunci della campagna elettorale, mentre si susseguono le gaffe della sindaca nella scelta dei collaboratori, dal boy-friend all’ex alemanniano fino all’ambientalista vetero-comunista.
E dietro a questo balletto si intravede un secondo scenario imprevedibile, cioè il sorgere delle correnti nel Movimento. Ogni boss romano dei 5 Stelle ha i propri nomi, la propria cordata, la propria fetta di potere capitolino da conquistare. Casaleggio jr avrà le doti del selezionatore per la campagna elettorale ma non quelle del leader politico. E anche il carisma di Grillo sembra sbiadito. Su questo indebolimento punta Renzi che sogna le notti magiche non degli azzurri a Parigi, ma quelle in cui eliminerà ogni avversario.