Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro di Matteo Renzi. Sparito dai radar della politica, ignorato da giornali e tv, silenziato dalle tragedie di questi giorni: e per carità di patria ben pochi, anche tra i giornali avversi al segretario del Pd, gli chiedono conto di che fine abbia fatto l’ambizioso programma “Casa Italia” che avrebbe dovuto mettere in sicurezza un Paese ad altissimo rischio di disastri naturali.

D’accordo che nei corridoi della politica tutto è fermo fino a quando la Consulta non diffonderà il suo verbo riguardo la legge elettorale. Un limbo di attesa per tutti, a destra e a sinistra; una sospensione del dibattito in cui non c’è spazio per i tatticismi. Renzi aveva fatto intendere che si sarebbe mosso prima della sentenza della Corte costituzionale: ma anche gli interlocutori latitano. Chiunque si guarda bene dal promettere qualcosa che poi non potrebbe mantenere nell’incertezza del quadro di riferimento.

Ora Renzi paga le conseguenze di aver voluto bruciare le tappe dell’ascesa a Palazzo Chigi. Aveva usato il partito per lanciarsi nella scalata. Perse le primarie del 2012 a vantaggio di Bersani, ha prevalso in quelle dell’anno successivo dopo l’uscita di scena del segretario vincitore a metà delle elezioni. In meno di sei mesi ha trasformato il Pd in un trampolino di lancio per la consacrazione a premier, e negli anni di governo lo ha svuotato, ha ignorato tutto ciò che proveniva dal Nazareno liquidandolo come robaccia da rottamare; anzi, ormai quando si dice “il Nazareno” non si pensa più alla segreteria del Pd (che ha sede nel largo omonimo) ma all’accordo con Berlusconi. Renzi ha tolto peso e potere al partito perché si sentisse soltanto la sua voce da Palazzo Chigi. Ora che ha perso quel pulpito, tocca con mano la gravità dell’errore commesso: il segretario di un partito così sfibrato conta come il 2 di bastoni con briscola denari. Un fantasma, appunto.

Il suo silenzio, interrotto vanamente dall’intervista di domenica scorsa a Repubblica, va di pari passo con l’evanescenza fisica. Renzi non si vede più in giro. Ma per l’elementare principio della fisica per cui ogni vuoto deve essere riempito, ecco che gli spazi lasciati liberi vengono colmati da chi doveva essere rottamato e invece è ancora lì. Massimo D’Alema ha aperto formalmente la caccia al successore di Renzi con la parola d’ordine che “occorre un nuovo Prodi”. Un altro che riesca a riunificare il centrosinistra come ai tempi dell’Ulivo, e non uno come l’ex sindaco di Firenze che spacca il partito per fare accordi con Berlusconi, Alfano e Verdini. Già circolano i nomi, tra autocandidature (Michele Emiliano) e cavalli di ritorno (Enrico Letta). Bersani giura di avere una carta coperta da rivelare al momento opportuno: forse è Roberto Speranza, un nome — anzi un cognome — che è tutto un programma. 

Evocato come a una seduta spiritica, è riapparso in carne e ossa lo stesso Prodi, orgoglioso che la sua esperienza venga ricordata con nostalgia e addirittura riproposta. In realtà la stagione dell’Ulivo non è stata brillantissima: vero che il Professore è stato l’unico a sconfiggere per ben due volte Silvio Berlusconi alle elezioni; ma i suoi due governi sono durati un paio d’anni ciascuno, e sono caduti non per merito dell’opposizione quanto per i dissidi interni alla coalizione che era giunta a superare i 10 tra partiti e partitini. Qualcuno oggi la chiamerebbe un’accozzaglia.

Eppure rievocare il tentativo unitario ha un senso preciso: se la legge elettorale andrà nella direzione del proporzionale, sarà inevitabile che la guida del Pd finisca in mano a un federatore, un mediatore capace di tenere assieme componenti anche lontane. Anche una figura non brillantissima come Paolo Gentiloni oggi riscuote un credito maggiore di Renzi. Gli ex democristiani non mancano nel Pd. E scaldano i motori, mentre il fantasma di Renzi viene stretto tra Prodi e D’Alema.