È la nemesi dei rottamati che ora vogliono rottamare il Rottamatore. La vendetta di coloro che Matteo Renzi doveva rimpiazzare nella gestione del Pd. Il simbolo della rottamazione mancata, Massimo D’Alema, ha preso in pugno la situazione e da ieri l’ipotesi di una scissione del partito non è più fantapolitica. D’Alema rompe anche con l’attendismo di Pier Luigi Bersani, che da tre anni fa opposizione interna garantendo che lascerebbe il partito soltanto se ne fosse cacciato. D’Alema no, le sue parole di ieri sono chiare: “Se ci troveremo di fronte alla sordità di un gruppo dirigente e prevarrà l’idea di andare a elezioni senza un progetto politico e di governo, con l’obiettivo di normalizzare il Pd e ridurre i gruppi parlamentari all’obbedienza, allora deve essere chiaro, lo dico con assoluta serenità: una scelta di questo tipo renderebbe ciascuno libero”.
I militanti che lo ascoltano, quelli dei comitati del No per “un nuovo centrosinistra”, si spellano le mani dagli applausi. La spaccatura del Paese emersa dal referendum del 4 dicembre si ripropone nel Pd. La realtà è chiara: la rottura è il frutto della scelta di Renzi di forzare la mano sulle riforme, approvate a colpi di maggioranza e poi portate al voto popolare come un referendum su se stesso. Ogni appuntamento è trasformato in una sfida all’ultimo sangue, come se lui potesse permettersi il “chi non è con me è contro di me” che disse Cristo nei Vangeli.
Ora Renzi sta impostando questa fase nello stesso modo. È convinto che le elezioni saranno un testa a testa tra lui e Grillo, e che gli italiani davanti all’alternativa sceglieranno lui. Non è un caso che sui giornali “amici” escano ogni giorno intercettazioni di telefonate e messaggini di Virginia Raggi che non hanno nulla di penalmente rilevante, ma molto di politicamente screditante verso i 5 Stelle. E se il sistema elettorale con cui si andrà a votare non consentirà di fargli guadagnare una maggioranza chiara, Renzi preferisce allearsi con uno come Silvio Berlusconi piuttosto che ridare dignità politica di interlocutori a Bersani e compagnia.
D’Alema per ora chiede un congresso in primavera prima che il segretario decida per conto suo di portare l’Italia alle urne a giugno. E un congresso non interlocutorio ma di svolta, dove Renzi dovrà invertire la rotta. Dovrà riportare il Pd a sinistra. E se non accadrà, D’Alema avverte i suoi: “State pronti a ogni eventualità. La discussione sul Sì e sul No è finita, l’hanno chiusa i cittadini. Ora rivolgiamoci al mondo del centrosinistra italiano, un mondo disperso, spesso non iscritto a nessun partito”. Adesso o mai più: gli antirenziani ne sono consapevoli.
È vero che la Consulta ha eliminato il ballottaggio, ma ha lasciato i capilista bloccati. Sarà Renzi a compilare le liste e sbatterà fuori tutti quelli che gli danno fastidio. O si raggiunge un accordo adesso, in vista del congresso, oppure per la minoranza interna del Pd la prospettiva è quella di sparire. La motivazione ufficiale è comunque nobile: non vogliamo un partito di servi ma di persone per bene.
Da Rimini, dove ha parlato agli amministratori locali del Pd, Renzi ha ribattuto a muso durissimo. “Dieci giorni prima del referendum eravamo quelli del rischio autoritario, oggi invece sono tutti preoccupati delle larghe intese. Mettiamoci d’accordo, avere paura dell’uomo solo al comando e delle larghe intese contemporaneamente non può essere”. Non ci sono spazi di mediazione: o Renzi uomo forte oppure un accordo con Berlusconi. Un’alternativa inaccettabile per mezzo Pd, e non solo, proprio nel momento in cui il Cavaliere viene indagato nel Ruby 4 e viene rinviato a giudizio per il Ruby 3, procedimenti con le accuse più infamanti per il leader del centrodestra.