Se perfino Sanremo rottama i suoi big ed elimina Al Bano e Gigi D’Alessio, il primo dei rottamatori non può restare inerte davanti al ritorno della vecchia guardia del partito. Il tam tam echeggia da qualche giorno: domani, alla direzione nazionale del Pd, Matteo Renzi dovrebbe attuare un blitz per spianare la strada verso le elezioni anticipate a fine giugno. O, in alternativa, annunciare le dimissioni da segretario per mettere la minoranza interna con le spalle al muro: non vogliono il voto, non hanno proposte sulla nuova legge elettorale, non se ne vanno a sinistra con Pisapia, dunque sarebbe il momento di prendere qualche decisione.



Renzi non molla sul voto anticipato. Le sue ragioni sono più d’una. Innanzitutto, la questione personale: dopo la sventola del referendum, più tardi si vota più lungo è il logoramento dello sconfitto. E l’ex premier non è uno che ami stare sullo spiedo perché preferisce essere lui quello che infilza. Aveva detto che avrebbe tolto il disturbo ma ormai non dovrebbe sorprendere nessuno il suo temperamento da sbruffone, da giocatore di poker che si mostra sicuro di sé anche se ha cattive carte in mano. Il suo ego, il suo futuro personale in politica sono la prima molla verso le urne.



Poi c’è il rapporto con l’Europa. Tre anni di riforme presunte se non fallimentari (vedi il Jobs act), di sforamenti mai controbilanciati dalla ripresa che ne doveva conseguire, di bracci di ferro inutili con Bruxelles e Francoforte, di bonus a pioggia senza un taglio alle spese improduttive, hanno portato alla resa dei conti. L’Europa vuole una correzione immediata ai bilanci e una manovra pesante a fine anno: con quale faccia si presenterà agli elettori il principale azionista di un governo che taglieggia fumatori e automobilisti come un democristiano qualunque? 

Meglio una campagna elettorale subito contro gli euroaguzzini piuttosto che dover spiegare ai furibondi italiani come mai un’intera legislatura a guida Pd ha ridotto il Paese peggio di quando c’era Berlusconi. Su questa linea antieuropeista Renzi si affiancherebbe alla tendenza che sembra predominare in Francia e Germania, Paesi che pure dovranno votare nel 2017, e magari spera di tagliare un po’ di erba sotto ai piedi dei populisti italiani. Pare che né la Le Pen né Schulz abbiano veramente possibilità di governare nei rispettivi Paesi, ma tant’è.



Qui s’inserisce un’altra delle condizioni che spingono Renzi ad accelerare verso le urne: la palude in cui si dibattono i grillini dopo i disastri di Virginia Raggi a Roma. Per la prima volta i sondaggi segnano un calo dei consensi verso i 5 Stelle e il rottamatore vuole battere il ferro finché è caldo. L’obiettivo del 40 per cento rimane irraggiungibile. Ma sul fronte avversario si registra un appannamento della prospettiva che il centrodestra si presenti unito al voto. Silvio Berlusconi infatti non perde occasione per ripetere che lui è l’unico argine moderato ai populismi. In questo modo il Cavaliere si candida ad alleato del Pd nella prossima legislatura.

Infine, Renzi teme il logorio interno al partito. Non vuole dare tempo ai suoi (ex?) sostenitori come Franceschini e Orfini di riorganizzare le truppe e scegliere un nuovo leader. Vogliono farlo fuori anche da segretario Pd oltre che da premier? Benissimo, il pokerista vuole scoprire il bluff. La spregiudicatezza renziana arriva al punto di alzare le spalle davanti al pronunciamento della Corte costituzionale sulla legge elettorale. A due mesi dal referendum nulla si è mosso per cercare un nuovo sistema. Nei prossimi due nulla fa pensare che qualcuno prenderà l’iniziativa soltanto per fare piacere agli ermellini della Consulta, col risultato di sentirsi rinfacciare che “non sono questi i problemi degli italiani” e che “i politici pensano alle poltrone e non ai disoccupati”. Meglio votare subito, imporre una finta unità a sinistra e fare l’accordo con Berlusconi. E un “ciaone” al Paese.