La Rai renziana martella contro Virginia Raggi e i quotidiani amici altrettanto. Le polizze vita e le amicizie della sindaca di Roma sono un toccasana: non spostano consensi dai 5 Stelle ai democratici, ma almeno aiutano a mascherare il caos che regna al Nazareno. Nessuno, o quasi, parla della confusione che governa il Pd. Con la bufera che sconvolge i grillini, basterebbe che a sinistra seppellissero le varie asce di guerra per trovare uno straccio di accordo e presentarsi uniti, anche solo all’apparenza. Invece no, tutti contro tutti. La maggioranza renziana del partito litiga sulle mosse del segretario. La minoranza si spacca in mille pezzi tra dalemiani scissionisti, bersaniani attendisti, cuperliani dimissionisti, pisapiani alternativisti, e altre frange.
Lo stesso segretario un giorno fa la faccia cattiva e il giorno dopo scende a più miti consigli lasciando addirittura intendere (per chi abbocca) che potrebbe anche farsi di lato nella corsa alla premiership futura. Per la quale, parole sue, sarebbero in corsa Gentiloni e Calenda: ottimo sistema per bruciare quei nomi. Intanto i suoi luogotenenti Franceschini e Delrio ipotizzano una grande coalizione che vada da Pisapia ad Alfano. I sondaggi dicono che sarebbero più i voti persi che quelli guadagnati. Parallelamente Gianni Cuperlo rievoca un vecchio Eros Ramazzotti e sollecita Renzi: “Fermati un istante”. Dimettiti domani e convoca il congresso.
Chi sembra godere, in questo momento, tra i due partiti maggiori (Pd e M5s) è il centrodestra. Un insospettabile sondaggio di Repubblica mostra che se il vecchio blocco Forza Italia-Lega Nord, oggi puntellato non più da Alleanza nazionale ma da Fratelli d’Italia, si presentasse coeso alle urne avrebbe forti possibilità di successo, anche se non arriverebbe al fatidico 40 per cento che, dopo la sentenza della Consulta, rappresenta il sogno proibito di tutti i leader politici.
La confusione è grande. Forse è anche inevitabile, visto che la Corte costituzionale costringe tutti a riposizionarsi. Da un lato occorre vedere se in Parlamento è possibile dare vita a una maggioranza “pro tempore” sufficientemente affiatata per varare una nuova legge elettorale, possibilmente migliore dell’attuale rabberciata da due sentenze dei supremi giudici. Dall’altro lato, c’è chi si muove nella prospettiva opposta, scommettendo cioè che la nuova legge non si farà e, prima o poi, si andrà a votare con due leggi-moncone: alla Camera un pezzo di Italicum e al Senato un pezzo di Porcellum, entrambi amputati dalla Corte costituzionale.
Le ipotesi divergono, come le strade che si possono intraprendere. Le leggi elettorali uscite dal palazzo della Consulta tendono verso un ritorno al proporzionale con correzioni minime. Il che impone al Pd la ricerca di un accordo. Qui viene in soccorso una vecchia legge matematica che però trova applicazione sensata in politica: quello che è conosciuto come “il paradosso del gelataio”.
Su una spiaggia lavorano due gelatai ambulanti. Per non pestarsi i piedi dividono l’arenile a metà, uno lavora a destra e l’altro a sinistra, ognuno piazzandosi a metà dell’area di competenza. Ma dopo un po’ cominceranno a spostarsi verso il centro per rubare clienti al concorrente, infischiandosene delle estreme: pur di conquistare i clienti del centro possono sopportare la perdita di qualche bagnante più lontano.
Centimetro dopo centimetro, i due gelatai arriveranno a operare esattamente dallo stesso punto in mezzo al litorale. Il paradosso spiega sia perché la vera battaglia politica si svolge sempre al centro, sia perché cresce l’astensionismo di quote sempre maggiori di elettori che si considerano trascurati dal loro punto di riferimento naturale. I gelatai Matteo e Silvio giocano dunque la loro partita sulla sabbia con un progressivo avvicinamento: ma, al momento, non sembrano aver fatto davvero i conti con le estreme dei rispettivi schieramenti. Vanno all’attacco senza coprirsi bene le spalle. Non è detto sia una tattica vincente, visto che l’incomodo grillino è pronto ad approfittarne.