Erano i primi giorni del 2016 e un ospite indesiderato venne a suonare alle nostre porte. Nel giro di pochi giorni uno dall’altro, e poi nell’arco dei successivi undici mesi, il triste mietitore si portò via David Bowie, Glenn Frey, Paul Kantner, Prince, Merle Haggard, Keith Emerson, Leon Russell, Greg Lake, George Michael e Leonard Cohen. Alcuni per evidenti limiti di età (over 80), altri per le conseguenze di una vita condotta troppo spesso sulla corsia di sorpasso, altri ancora per suicidio o abuso di farmaci. Fu il periodo più nero dal 1969-1971 quando morirono, tutti a 27 anni di età, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison.



Sette anni dopo le morti non si contano più, mentre i sopravvissuti sono entrati nell’ultima fase della terza età. I tour di addio sono diventati la regola mentre ogni giorno ci aspettiamo di leggere la scomparsa di uno o dell’altro. E’ la vita, naturalmente, anche se, malati della sindrome di Peter Pan, ci eravamo illusi che il rock’n’roll mantenesse “per sempre giovani” e che la strada non si chiudesse mai.



Ma se questa è la normalità, la domanda è piuttosto un’altra: chi ha sostituito chi già non c’è più e chi sostituirà chi rimane ancora in vita?
C’era un tempo in cui sulla terra camminavano giganti. Nessuno sa da dove arrivassero. In modo misterioso, una corrente sotterranea si diffuse in tutto il mondo occidentale: dalle cantine di Liverpool a quelle di Belfast fino ai garage e alle stanzette da letto dei ragazzi di Berkeley, San Francisco e New York. Ognuno ignaro degli altri, una musica nuova ed eccitante si diffuse fino ad arrivare alle onde radio di tutto il mondo. Cosa stava succedendo? Quei ragazzi stessi non lo sapevano. Erano spinti da una gioia sconosciuta, da un desiderio del cuore che i loro padri non avevano mai conosciuto così apertamente, perché inibiti da regole e regolamenti che si erano ammassati su di loro per secoli. La musica rock come uno tsunami cambiò le loro vite e quelle di decine di milioni di altri ragazzi: “Vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso”. Quell’urlo di Jim Morrison, cantante dei Doors, fu l’urlo che riassunse tutto questo desiderio: contro istituzioni, regole, scuola e università, contro l’esercito e la guerra, contro la famiglia e tutto quanto di opprimente che ci fosse.



Negli anni 60 una canzone di un cosiddetto “girls group”, quei gruppi composti solo da esponenti del sesso femminile e per di più di colore, che producevano canzoni che inneggiavano alla bellezza di essere giovani, divenne l’inno delle proteste nei ghetti delle grandi città nord americane. Eppure era una canzone che celebrava il piacere di ballare, danzare per le strade, ispirata a uno degli autori dall’aver visto i ragazzi di colore per le strade di Detroit che d’estate si rinfrescavano sotto all’acqua dopo aver aperto gli idranti anti incendio: danzavano nell’acqua. Si intitolava Dancing in the streets, la cantavano Martha & The Vandellas:

Callin’ out around the world

Are you ready for a brand new beat

Summer’s here and the time is right

For dancing in the street
They’re dancing in Chicago (dancing in the street)

Down in New Orleans (dancing in the street)

In New York City (dancing in the street)

All we need is music, sweet music

There’ll be music everywhere

Era la celebrazione della gioia di vivere. Eppure la canzone assunse un significato diverso quando le rivolte nei centri urbani americani portarono i giovani manifestanti neri a citare la canzone come un inno per i diritti civili e per il cambiamento sociale, il che portò anche alcune stazioni radio a togliere la canzone dalla playlist. Il potere della musica, in quel periodo storico, era tale che una innocente canzone per festeggiare il sabato sera, diventasse una chiamata alla rivoluzione.

Con la fine del secondo conflitto mondiale, nel mondo occidentale si era liberata un’energia che non aveva mai avuto precedenti nella storia dell’umanità. La corsa alla ricostruzione, il conseguente boom economico finirono però per sfuggire di mano a chi li aveva perseguiti con l’instancabile certezza che non ci sarebbero più state guerre e che tutto sarebbe stato perfetto. Ma la perfezione non è di questo mondo e non appartiene all’essere umano che per sua stessa natura non è e non può mai ritenersi soddisfatto.

Negli anni 50, per la prima volta, una intera generazione poteva aspirare a una vita che non fosse solo lavoro-chiesa-casa. Le casette rosa dotate di frigorifero, lava stoviglie e tv che per i loro genitori erano stati il massimo a cui si potesse ambire nella vita terrena, per questi giovani non erano abbastanza. Elvis senza esserne consapevole aveva lanciato una sfida: che la vita potesse essere un unico sabato sera. Che ovviamente è solo un sogno, “follow that dream”, ma è un bel sogno da sognare.

Per la prima volta nella storia dell’umanità, essere giovani non era una colpa. Sottoposti a regole e regolamenti, a indottrinamento moralistico, alla divisione del mondo in buoni e cattivi, a una vita predestinata come produttori di generi di consumo, questi giovani desideravano altro, desideravano di più. Desideravano la felicità, quella che non si compra e non si addomestica. Volevano le ali di Icaro. E trovarono qualcosa che coincideva con tutto questo: “Some people say that it’s just rock and roll Ah, but it gets you right down to your soul”. Quella musica parlava ai loro cuori e alle loro anime, scorreva giù che era un piacere. E non trovava ostacoli.

La definizione antropologica e sociale di “giovani” si crea soltanto a partire dagli Anni Cinquanta dello scorso secolo: quando, dopo la Seconda guerra mondiale, in alcune università europee e americane dei “giovani” iniziano a rivendicare un loro status esistenziale con dei valori (e dei consumi) in opposizione a quello dei genitori.

Nella cultura latina, al bambino (“puer”) subentrava l’adulto (“senior”), considerato solo come soggetto civile, membro a tutti gli effetti della comunità di appartenenza. Non c’era nessun immaginario legato alla sfera della gioventù o dell’adolescenza. L’adolescente era solo un uomo non ancora maturo, un non soggetto da forgiare e portare a compimento. Nelle raffigurazioni medioevali, oltre a quella di adolescente, manca anche una nozione dell’infanzia: i bambini sono infatti raffigurati sempre come degli uomini in miniatura, non hanno nessun tratto che li differenzi dai “grandi” che non sia la semplice statura.

I contadini, attorno al primo volgere di millennio, andavano a lavorare a quattro o cinque anni, e a quell’età si diventava “adulti”. Gli operai, nella prima rivoluzione industriale, venivano “arruolati” a otto, nove anni, in qualche caso anche prima. Fino a tutto l’Ottocento e ben oltre “giovani” erano solo i ricchi non ancora entrati in società che godevano dei loro privilegi. Il boom economico del dopo guerra fece sì che una vita fatta di piaceri e divertimento fosse possibile anche agli appartenenti alle classi proletarie.

Esistevano solide ragioni economiche per l’ascesa di questa bohème di massa che prese piede negli anni 60. Una ascesa decennale dei redditi reali era una contraddizione al concetto di onesto lavoratore/produttore che si trasforma in edonistico consumatore nel suo tempo libero. Innumerevoli ragazzini piuttosto che assumere nel momento previsto la loro funzione produttiva avevano scelto di realizzare se stessi al di fuori del mercato del lavoro. Era quello che il simbolo della Beat Generation, Jack Kerouac, aveva proclamato e identificato nei suoi libri e che diventò il mantra di questi giovani: “Le uniche persone per me sono i matti, quelli che sono matti della voglia di vivere, matti per parlare, matti per essere salvati, desiderosi di tutto allo stesso tempo, quelli che non sbadigliano mai o dicono una cosa banale, ma bruciano, bruciano, bruciano come favolose candele romane gialle che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo vedi la luce centrale blu scoppiare e tutti dicono “Awww!”. In fondo, come dichiararono i Beatles, quello che questi ragazzi chiedevano era una cosa sola: “All you need is love”, amore. Oggi nessuno lo chiede più, perché tutto appare cinico sfruttamento, delusione, tradimento.

Nell’episodio Il frigorifero nel film Le coppie, diretto da Mario Monicelli, la coppia Enzo Jannacci e Monica Vitti rappresenta magistralmente il disfacimento umano e morale della classe popolare tentata dal consumismo imperante. I protagonisti sono una coppia di emigrati sardi a Torino che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Eppure fanno enormi sacrifici per pagare a rate un gigantesco frigorifero da 180 litri il quale, data la loro indigenza, serve solo a raffreddare l’acqua del rubinetto e soprattutto per suscitare l’ammirazione e l’invidia dei vicini. Il giorno del pagamento dell’ultima rata, il marito perde maldestramente i soldi necessari al saldo. Il negozio di elettrodomestici non ammette dilazioni: o entro il giorno successivo si presenteranno con il dovuto, o saranno costretti a vedersi portar via il frigorifero. Dopo aver tentato in tutti i modi di mettere insieme la somma, non enorme ma per il loro bilancio comunque proibitiva (9.100 lire), i coniugi riflettono sulla facilità con cui la loro vicina, una prostituta sedicente massaggiatrice, riesce a ottenere del denaro, e finiscono per convincersi dell’opportunità che la moglie, sia pure per una sola volta, si prostituisca. Alla fine la donna si concede a un cliente per la somma precisa, senza volere un centesimo di più. Il giorno dopo, la coppia si presenta nel negozio per saldare il debito: finalmente il frigorifero è di loro proprietà a tutti gli effetti. Tutto è risolto, se non fosse che nel negozio la donna rimane incantata da una modernissima lavatrice… Era contro tutto questo che i nuovi giovani si ribellavano.

Purtroppo non c’è bisogno di andare così lontano, perché questo fenomeno è tutt’oggi imperante e devastante allo stesso modo. Tutti ricordiamo le lunghissime file di persone davanti ai negozi Apple quando viene lanciato un nuovo modello di iPhone.

La realizzazione di tipo bohémien venne raggiunta attraverso l’arte. Solo la cultura popolare avrebbe potuto rendere l’arte accessibile non soltanto a benestanti di buona famiglia ma anche all’ampia gamma dei figli di guerra di più bassa posizione sociale che infatti fecero del movimento hippie il fenomeno relativamente interclassista che esso fu. Per tutti questi ragazzi cultura popolare significava rock’n’roll ovvero la forma d’arte creata da e per il loro consumo edonistico.

Fu un momento storico in cui tutto sembrava davvero possibile. Come scrisse il sociologo Langdon Winner “Dai tempi del congresso di Vienna nel 1815 la civiltà occidentale non fu mai così vicina all’unità come nella settimana in cui fu pubblicato Sgt Pepper’s dei Beatles, il primo disco al mondo diffuso e messo in vendita ovunque nello stesso giorno. In ogni città europea e americana giradischi e radio suonavano le note di With a Little help from my Friends, Lucy in the Sky with diamonds, e tutti ascoltavano. Per un breve istante la coscienza irrimediabilmente frantumata dell’occidente si riaggregò quantomeno nel teste dei giovani”.

Fu tanto imponente questa ondata di desiderio e bellezza, che due fra i più noti autori di musica rock hanno potuto rilasciare, in due loro canzoni, dei versi che appaiono delle sbruffonate, ma che invece dicono la verità: “Quando ripenso a tutte le stronzate che ho imparato al liceo è una meraviglia che riesca a pensare” (Paul Simon, Kodachrome). A cui va aggiunta l’altrettanto emblematica: “Ce ne siamo andati dalla scuola, dovevo allontanarmi da quegli sciocchi, abbiamo imparato di più da un disco di tre minuti, di quanto abbiamo mai imparato a scuola” (Bruce Springsteen, No surrender).

Parole azzardate, cialtronate? No. Parole scritte nel sangue di almeno una generazione. Perché non bastava più il nozionismo per un cuore affamato, come descrive benissimo Antonello Venditti nella sua Compagno di scuola:

Il professore

che ti legge sempre la stessa storia

sullo stesso libro,

nello stesso modo,

con le stesse parole da quarant’anni

di onesta professione.

Ma le domande non hanno mai avuto

una risposta chiara

Poi, come sempre succede, tutto questo scomparve. Il mercato fiutò l’affare: quei giovani erano un ottimo investimento economico da sfruttare fino in fondo. La musica divenne un bussiness affamato di corpi giovani da dare in pasto a folle urlanti. Il fanatismo e l’appagamento delle voglie più banali presero il sopravvento. Tutto si frazionò e si spezzò in migliaia di rivoli destinati a inaridirsi. Quel desiderio del cuore venne annichilito e addormentato dai soldi, dalle soddisfazioni effimere: sesso e droga, stelline luccicanti e appariscenza. In modo diverso, si ripeteva quello che era successo ai loro genitori. Ma peggio, ”perché un sogno che non si avvera è una maledizione”.

La musica rock se si vuole far coincidere il suo inizio con l’uscita del primo 45 giri di Elvis Presley, l’anno prossimo compirà 70 anni. Un’età da pensione e i suoi storici protagonisti vanno scomparendo uno a uno.

Che sia una formula musicale limitata, non c’è mai stato dubbio. Che questa sua povertà tecnica l’abbia condotta a una morte prematura non è però la risposta al quesito. Dire cioè che oggi non nascano più artisti o gruppi di livello come quelli del passato, che ci si limiti a rifare paro paro quanto fatto da migliaia di altri sia indicatore del fatto che questa musica non abbia più niente da dire, è solo fermarsi alla superficie. Già quando Presley era ancora ai suoi primi dischi, non si contavano i suoi imitatori. Lo stesso successe con i Beatles, gli Stones, Dylan.

Quindi? Colpa della musica? Tornando alla domanda iniziale, è lecito chiedersi benché si trovino (un po’ pochini in realtà) ancora bravi autori di canzoni, i più grandi di essi uscirono fuori tutti in quel preciso momento storico di cui abbiamo parlato prima: gli anni 50, i 60 e anche i 70.

Non è un esaurimento della formula musicale, che potrebbe ancora essere declinata in formule soddisfacenti. E’ un esaurimento dell’animo, del desiderio. Che riguarda tutto, non solo la musica rock.

Quel desiderio incontenibile che un tempo aveva portato i ragazzi a scrivere canzoni di inestimabile bellezza, è andato perduto. Oggi c’è solo auto affermazione, cinismo, narcisismo esasperato, non si guarda oltre se stessi. E’ una società che si sta auto suicidando.

Ricordo concerti che mi mettevano paura. Quella paura che dovrebbe sempre far parte di un concerto rock quando ti chiedi chi sia quel personaggio sul palco, perché dice quelle cose e perché canta in quel modo. Cosa sta cercando di dirmi? Oggi non è più così. Nessun artista ti spaventa. È tutto finto ed è palese che lo sia: talent show, canzoni, artisti. Gli ultimi eroi giovanili, i Maneskin, sono bravissimi da un puro di vista tecnico. Ma cosa comunicano? Copiano, molto bene, quanto fatto fino a ieri, ma le loro canzoni resteranno come resta tutt’oggi un brano dei Beatles o dei Rolling Stones?

Perché le ultime generazioni hanno perso quel sentimento? E’ colpa di noi adulti che ci siamo nascosti e cancellati per non fare domande e vivere anestetizzati per non soffrire? Qual è il modo per recuperarlo e trasmetterlo ai nostri figli? Una cosa è sicura: perdere e dimenticare quell’enorme patrimonio che è stata la storia della musica rock sarebbe un danno imperdonabile per il mondo. Come cancellare pagine di letteratura, di pittura. Il che, visto il revisionismo che ha preso piede ultimamente, sta già succedendo.

Tolto il desiderio, cosa resta? Il consumo.

Oggi il “giovane” è innanzitutto un accanito consumatore di prodotti che ne forgiano, attraverso un ampio sistema di manipolazione mentale, l’identità, dice Aldo Nove: “Un’identità data per vincente, dinamica (in rapporto alle merci). Uno studiatissimo target di mercato “ricco di energia” (e di soldi) e quindi disposto a spendere (molto). “Se si è giovani ci si diverte”; e quindi si consuma. “Giovane” è chi compra dischi, chi va in vacanza, chi si permette e può permettersi di “divertirsi” e di comprare. Per questo, a fine degli Anni Settanta, sono nate quelle che potremmo definire le prime “fabbriche d’immaginario giovanile”: le discoteche, santuari del consumismo dove i “giovani” consumavano (e consumano) i prodotti musicali per loro confezionati. Con la crisi della società industriale, con la globalizzazione e il costituirsi dell’attuale, ansiogeno precario mondo del lavoro si resta forzatamente “giovani” anche fino a trenta quaranta e cinquant’anni. Si aspetta cioè un ingresso in società che però non avviene mai e che pone tutti uniformemente sulla soglia di un sistema che esclude a priori quell’ingresso, inventando curiose e deliranti forme di “eternizzazione” della gioventù. Con la prospettiva di rimanere per sempre, paradossalmente, tragicamente “giovani” (e cioè disoccupati, e cioè precari, non affrancati nel mondo, mantenuti dai genitori). Il giovane reale (l’attuale quindicenne) vive indubbiamente un senso di incertezza, di precarietà strutturale che squarcia in due il suo orizzonte di progettazione. Tutto questo accade attraverso un immaginario mass mediatico schizofrenico, portato a esaltare modelli generazionali truccati all’inverosimile e comunque fuori dalle vere nuove problematiche sociali. Perché oggi, a essere esaltati, sono sempre e solo i valori della competitività, dell’aggressività e insomma tutto ciò che porta l’iperliberismo ipocrita in cui ci troviamo a perpetuare se stesso e le proprie nefandezze. Essere giovani è una fatica mostruosa. Significa accettare un futuro completamente indefinito, mentre definito è il senso di precarietà che colpisce tutti i giovani reali, quindicenni o (purtroppo) trentenni che siano, e li umilia sotto una pioggia coloratissima di merci a corollario di un mondo che ti chiede e impone in continuazione di consumare tutto, e non ti dà la possibilità di produrre nulla (di retribuito, e di sensato)”.

Sessant’anni fa un gruppo newyorchese, i Lovin’ Spoonful, ci chiedevano se credevamo nella magia della musica che può liberarci: chi riaccenderà quelle onde radio che ci avevano dato tanto?

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