Come nei matrimoni c’è la crisi del settimo anno, così la splendida corsa in questo finale di campionato della Juve si è trovata di fronte al Manuzzi la “crisi della settima vittoria”. Dopo sei successi di fila, ottenuti con prestazioni maiuscole per qualità e intensità di gioco e di gol, la squadra di Conte, nel testacoda con il Cesena, si è presentata in campo con un approccio mentale sbagliato, troppo remissivo e sbadato. La Juventus ha infatti cominciato la partita con le certezza inconscia di avere già i tre punti in tasca contro una formazione ultima in classifica e già virtualmente condannata alla serie B. Oltre tutto ai romagnoli mancavano i due attaccanti più titolati: Mutu e Iaquinta. “Cosa volete che ci succeda? – avranno pensato gli juventini -. Viste le ultime cavalcate trionfali, qui sarà una passeggiata”. Conte, dall’alto della sua esperienza di ex giocatore vincente, aveva ammonito i suoi in settimana: “Voglio cinque finali, non è il momento di andare in vacanza, bisogna dimostrare la solita ferocia”. Ebbene, la squadra questi richiami se li è dimenticati negli spogliatoi.
E’ vero che dopo aver infilato un filotto di sei vittorie contro avversari impegnativi – vuoi per rivalità (Fiorentina e Roma), vuoi per blasone (Inter), vuoi per carattere (Lazio), vuoi per caratura tecnico-agonistica (Napoli) -, un momento di rilassatezza poteva anche starci. Ma a questo sndo della stagione giunti, per gli uomini di Conte non è proprio il momento di abbassare la guardia. Anzi, è proprio il momento di infliggere i colpi più letali, è il momento di ruggire con ancora maggiore forza.
Ma veniamo alla partita. La Juve del Manuzzi, circondata da un affetto e da un entusiasmo tali che non si vedevano da anni anche in una terra di fede juventina incrollabile e calda come la Romagna, è parsa all’inizio sorpresa dal modulo scelto da Beretta (5-3-2) e dall’aggressività dei cesenati, che hanno giocato con mente sgombra e gamba pronta. Eppure dopo appena dieci minuti si è presentata la possibilità di sferrare il primo pugno da k.o.: dopo azione in percussione di Vucinic con palla toccata di mano da Moras (invero qualche centimetro fuori dall’area, ma a velocità normale sembrava all’interno dei 16 metri), l’arbitro ha assegnato il rigore: Pirlo si è presentato dal dischetto e come domenica contro la Roma non ha insaccato, colpendo il palo. Da quel momento il direttore d’orchestra della squadra di Conte, pur distribuendo la solita quantità industriale di palloni, ha perso un po’ della proverbiale lucidità ed efficacia e attorno a lui, a partire dai due guerrieri Vidal e Caceres, la squadra ha faticato a far girare a mille il motore.
Anzi, è sembrato addirittura ingolfato: l’azione dalle retrovie partiva con lentezza, attorno al portatore di palla non c’era movimento a smarcarsi e sulle fasce né l’uruguagio né De Ceglie riuscivano a incidere. La linea offensiva poi, soprattutto con Matri, faticava a difendere il pallone e a distribuirlo di sponda per gli inserimenti da dietro. Quindi, la Juve nel primo tempo ha prodotto un insistito possesso palla, un evidente predominio territoriale, ma non ha mai dato l’impressione di poter schiantare l’avversario. Il Cesena, del resto, con grande abnegazione collettiva, ha saputo tenere validamente botta con maschia energia.
Il lavoro ai fianchi della Juve, che comincia dal primo minuto di ogni partita, ha sortito comunque i suoi effetti nel secondo tempo. Anche se meno brillanti del solito, gli juventini hanno a mano a mano assediato l’area di Antonioli. A mancare però era il “killer istinct”, quella capacità di uccidere una partita cui sembra di non riuscire a venirne a capo. A tratti è sembrato (si parva licet) di rivedere lo stesso copione andato in onda la sera prima al Camp Nou: la Juve nei panni del Barcellona, con dieci undicesimi nella metà campo avversaria impegnati a produrre sterili manovre di avvolgimento, e il Cesena in quelli del Chelsea, asserragliato nel suo Fort Apache e incapace di qualsiasi sortita offensiva. Per più di un attimo è balenata forse la paura che potesse scattare un fortuito ma letale contropiede dei romagnoli come quello di Torres al 90° contro i blaugrana…
Un timore che è durato fino al 30°, quando Conte si è finalmente deciso ad alzare il livello di pericolosità dell’attacco juventino, inserendo Giaccherini, Del Piero e Borriello. E proprio l’ex romanista, su assist di testa di Vucinic, ha infilato a dieci minuti dalla fine Antonioli, che fino a quel momento aveva detto di no con due grandi parate a Matri e Del Piero. Con il (pesantissimo) gol anti-Cesena, che garantisce alla Juve i tre punti di vantaggio sul Milan ma con una partita in meno da giocare, Borriello ha dato un senso compiuto alla sua mezza stagione juventina.
Nel complesso, escluso Buffon che è ingiudicabile (nessun tiro in porta del Cesena), difesa poco impegnata (quindi Barzagli, Bonucci e Chiellini raggiungono facilmente la sufficienza), centrocampo meno aggressivo e corsaro del solito (soprattutto con Vidal, che ha fatto una partita da 5,5), spinta sulle fasce balbettante (lo scalpitante Caceres ha perso il duello a distanza con il redivivo Lichtsteiner visto con la Roma) e attaccanti titolari – la coppia Matri-Vucinic – ancora troppo molli nel difendere la palla e nel dare respiro alla manovra.
Ma tanto è bastato per superare la “crisi della settima vittoria consecutiva” e per fare un altro passettino in avanti. Destinazione? Il “Sogno”. Anzi, come dice Conte, “per scrivere la storia dopo aver fatto un campionato finora al di là dello straodinario”.