Passa lungo la direttrice Milano-Palermo il sorpasso della Juventus, che torna capolista a sette giornate dal termine. Un punto in più sul Milan, grazie ad Amauri, oggetto misterioso e poi messo fuori rosa dal nuovo corso Agnelli-Marotta-Conte, che segna il suo primo gol in maglia viola consegnando così alla squadra che ne detiene metà cartellino il ritorno in vetta al campionato. Ad Amauri va il 50% del merito, l’altro 50% va soprattutto ad Antonio Conte.

Eh sì, perché l’allenatore bianconero, forte della sua pluriennale esperienza di giocatore che ha vissuto momenti delicati e importanti ad alti livelli, in settimana ha richiamato all’ordine squadra e società: un colloquio a voce alta e ferma di 12 minuti per ricordare che non è questo il momento di gettare gli ormeggi, che bisogna mantenere alta la concentrazione per essere pronti ad approfittare degli errori e delle fatiche altrui. E il Milan, tra l’incudine e il martello della doppia sfida di Champion’s con il Barcellona ha dovuto lasciare sul campo preziose energie fisiche e mentali e contro la Fiorentina ha giocato a ritmi bassi, con schemi prevedibili e un certo nervosismo di troppo, pagando così un pesantissimo dazio.

Ma Conte non solo ha lavorato bene in settimana sullo spirito di gruppo della Juve. Anche nel corso dei 90 minuti giocati contro il Palermo non ha mai abbassato la guardia né ha mai lasciato i suoi giocatori rilassati. Anzi, a metà del secondo tempo, vedendo che Pirlo insisteva con giocate centrali in verticale, Conte gli ha letteralmente urlato in faccia che così non andava, era necessario allargare il gioco sulle fasce per aprire la difesa dei rosanero. Capite: gridare in faccia a uno come Pirlo – il professore, il direttore d’orchestra, il grande tessitore di gioco – che stava sbagliando. E glielo ha gridato non una, ma più volte, fino a “costringerlo” a cambiare spartito. Insomma, Conte, che sta crescendo a vista d’occhio come allenatore, ha dimostrato che non fa sconti a nessuno, tanto meno sul piano della preparazione fisica e della concentrazione mentale.

Per la Juve quella con il Palermo è stata una partita facile e difficile nello stesso tempo. Da una parte facile, perché – complici anche le molte assenze tra i siciliani – ha dominato in lungo e in largo la partita: basti dire che il possesso palla è stato per oltre 40 minuti a favore della Juve, che ha lasciato poco più di una dozzina di minuti agli avversari. Ma è stata anche difficile perché, come ormai avviene da inizio campionato, l’esorbitante supremazia territoriale non si concretizza in gol. Nel primo tempo, pur senza pigiare sull’acceleratore, la Juve ha creato, senza sfuttarle, quattro chiare occasioni da gol, ma un Vucinic che è tornato a giocare con il piede e la testa molli ha sciupato un paio di opportunità (le altre due sono state mangiate da Quagliarella e Marchisio con tiri fuori dallo specchio della porta di Viviano).

Comunque la Juve ha dominato, meritando di vincere, una partita giocata non ai soliti ritmi, ma questo è segno di maturità: la squadra sta migliorando anche sotto questo profilo, continua sì ad attaccare imperterrita per tutta la partita (anche sul doppio vantaggio non ha cambiato atteggiamento offensivo), ma non è più costretta a spremersi.

Nel secondo tempo, poi, la morsa è diventata ancora più letale, anche se il Palermo ha cercato di mettere il naso fuori dalla sua metà campo. Però, nonostante la presenza di Miccoli (che ha il dente avvelenato contro la Juve e proprio contro la Vecchia Signora è andato sovente a segno), Buffon non è mai stato impegnato da un tiro avversario, potendo così allungare la sua striscia di imbattibilità di altri 90 minuti.

Dunque, difesa poco impegnata, con Barzagli e Chiellini che si confermano granatieri affidabili, mentre prosegue la fase di crescita di Bonucci: non solo ritrova una settimana dopo la via del gol, ma pure in fase d’interdizione si rende protagonista di un paio di ottimi interventi e in più, vista la marcatura a uomo iniziale di Della Rocca su Pirlo, si prende la responsabilità di impostare, con sicurezza ed efficacia, il gioco della Juve.

Sulle fasce meglio Caceres di Estigarribia: l’uruguagio ha più personalità, buona corsa e mantiene una spinta costante; il paraguagio, invece, assente da molte partite, soffre un po’ il ritmo e non riesce mai a saltare – come vorrebbe Conte – il suo diretto avversario.

A centrocampo, Pirlo offre l’ennesima prova da grande regista, solo con qualche sbavatura negli appoggi e nei lanci in profondità, mentre Vidal si prende un turno da giocatore normale (corre un po’ meno del solito, recupera un po’ meno palloni e inventa un po’ meno del solito). Quanto a Marchisio, buoni inserimenti (spesso, ahimè, non visti per tempo dai compagni), ma eccessiva frenesia nelle conclusioni.

Infine, la coppia d’attacco Vucinic-Quagliarella. Del montenegrino, potenzialmente un fuoriclasse cristallino, colpisce l’indolenza un po’ zingara nell’approcciare certe partite, in cui dà l’impressione di essersi dimenticato negli spogliatoi grinta e voglia di lottare. Quagliarella getta alle ortiche un gol già fatto, sbaglia appoggi e controlli che potrebbero essere utili per far salire a ondate la squadra, ma mette in cassaforte il risultato con un gol dei suoi: traiettoria da biliardo su bel tocco smarcante di Matri (entrato al posto di Vucinic). E poi Del Piero: pochi tocchi, un bel diagonale dopo doppio dribbling, ma ogni volta che accarezza il pallone è da applausi per classe e tempismo.

Ora tocca alla Lazio. E l’esortazione di John Elkann (“La Juve è una squadra di 11 leoni che giocano come un leone solo”) non può che farci piacere: è dall’inizio del campionato che suggeriamo alla squadra di Conte di ruggire in faccia agli avversari. Adesso, criniera al vento, è il momento di difendere il territorio, cioè il primato in classifica appena riconquistato.