Peccato per il gol di Pogba viziato da un fuorigioco di Tevez dopo un tocco di testa di Bonucci, ma la Juventus ha meritato di portare a casa il derby: è la quinta stracittadina di fila che i bianconeri vincono ed è da undici anni che non subiscono gol dai granata, incapaci di battere la Juve addirittura dal 1995. A differenza delle ultime due partite giocate contro Verona e Chievo, Conte si trova davanti non una squadra chiusa a riccio, con dieci giocatori dietro la linea della palla. Ventura non vuole rintanarsi in un bunker, sa che prima o poi la Juve (che nelle ultime tre gare, compresa la sfida con il Copenhagen in Champions, ha tirato in porta più di ottanta volte, una media di un tentativo ogni quattro minuti) un gol riesce a realizzarlo. Ma nella testa di allenatore e giocatori bianconeri già si profila l’ombra del Galatasaray, e allora bisogna dosare forze e freschezza dei protagonisti. Se in difesa la conferma del trio titolare è d’obbligo, perché Caceres è out, Peluso può solo dare il cambio a Chiellini e Ogbonna è un ex che rischia di finire fischiatissimo (comunque ha già dato respiro a Bonucci e al Chiello, disputando due partite di fila dal primo minuto), a centrocampo Conte concede un turno di riposo a Pirlo, un po’ sotto tono e ancora non al meglio della condizione, anche perché contro i turchi la sua regia e le sue illuminazioni torneranno senz’altro utilissime. La vera novità è in attacco, con Tevez confermatissimo (la Juve attuale non può prescindere dall’Apache, per la sua capacità di difendere il pallone, di saper giocare per i compagni e di saper inventare colpi e conclusioni micidiali) e il rilancio di Giovinco. Ma non è solo questione di cambi. Si gioca ogni tre giorni, tutti gli avversari cercano con la Juve la partita della vita e in parte hanno imparato ad affrontarla. E anche se per Conte la concentrazione non può mai venire meno (tiene tutti sulla corda, sempre, per novanta minuti, anche se si giocasse contro una formazione mista di scapoli e ammogliati), ugualmente sarà sempre più difficile vedere in campo la Juve formato primo campionato di Conte: allora l’allenatore salentino poteva preparare le partite con calma, da una domenica all’altra, senza impegni infrasettimanali, curando la condizione fisica e quella mentale a tal punto che dopo il fischio d’inizio i bianconeri scattavano come molle e tenevano per novanta minuti ritmi impressionanti, che alla lunga schiantavano e sgretolavano gli avversari. Oggi le sfide sono ravvicinate, la cura maniacale dei particolari, anzi, di ogni dettaglio (caratteristica principale del Conte allenatore), non è sempre possibile, tanto meno è impensabile giocare a mille ogni volta che si scende in campo. Ecco perché, a costo di sacrificare qualcosa alla spettacolarità e all’intensità di gioco, la terza Juve di Conte si prende le sue belle pause, agonistiche e mentali. E’ stato così anche nel derby: prima di arrivare al vantaggio, la Juve non si è certo ammazzata di fatica, anche se Conte chiamava i suoi giocatori a un pressing altissimo, portato addirittura a ridosso dei difensori granata; e una volta raggiunto il vantaggio, i bianconeri hanno cominciato a “camminare” per il campo, con un giro palla che non sarà certo il tiqui taca del Barcellona, ma garantisce comunque un possesso prolungato con il minimo dispendio di energie. Tanto è bastato per vincere, ma per convincere serve qualcosa in più. E soprattutto, perché, tirare i remi in barca con un solo gol a favore, evitando di andare a caccia del colpo del ko e correndo il rischio di essere raggiunti alla fine per un rimpallo sfavorevole, una disattenzione della difesa, una magia degli avversari? La Juve ruggente di Conte non può chiudersi con il a difesa del vantaggio a 20 minuti dalla fine…