È un Paese di neanche 3 milioni di abitanti, ma è molto ricco e nel tempo ha sviluppato la capacità di tenere rapporti con tutti, da Israele ad Hamas, dagli Usa alla Turchia, ricucendo anche quelli con l’Arabia Saudita. Per questo ora il Qatar svolge un ruolo di mediazione importante nella crisi mediorientale in relazione al dossier ostaggi e alla conseguente tregua. Non detterà la linea per uscire dal conflitto, dice Rony Hamaui, docente di scienze bancarie all’Università Cattolica ed esperto di economia e finanza islamica, ma continuerà a mediare tra le parti per arrivare a una soluzione e mantenere un ruolo centrale nell’area. Poi contribuirà alla ricostruzione di Gaza, stavolta, però, insieme agli altri Paesi che concorreranno a riedificare la Striscia, chiederà garanzie politiche per non vedere la regione distrutta un’altra volta. Non bisognerà sprecare l’occasione della ricostruzione come si è fatto nel passato, quando i soldi sono stati usati non solo per lo sviluppo economico, ma spesso per armi e per costruire tunnel.
Come ha fatto un Paese non così grande come il Qatar, sebbene potente economicamente, a ritagliarsi un ruolo rilevante nella crisi mediorientale, svolgendo un compito fondamentale nelle trattative per la liberazione degli ostaggi e per la tregua di questi giorni?
Diciamo che non è da ieri che il Qatar si è guadagnato questa posizione centrale. È un Paese piccolo, estremamente ricco, ma che ha sempre voluto distinguersi dagli altri. Non a caso è sede di Al Jazeera, è sempre stato un luogo di grandi incroci tra il mondo sciita e il mondo sunnita e contemporaneamente ha voluto ospitare le basi americane. Noi ci svegliamo adesso perché c’è la vicenda degli ostaggi, però questa è una storia che va avanti da molti anni: non si sono inventati un ruolo in questi giorni. I qatarioti hanno una compagnia aerea particolarmente attiva, sono stati tra i primi che hanno riconosciuto Israele, con cui hanno rapporti commerciali molto intensi. La capacità di avere rapporti con Paesi diversi non nasce per caso: hanno avuto una dominazione persiana per molti anni, poi hanno conosciuto quella ottomana, infine sono stati britannici. La loro, insomma, è una storia in cui diverse culture si sono incontrate.
Quindi hanno fatto tesoro di tutti questi contatti con culture diverse?
Hanno messo a frutto questi contatti, inoltre sono abbastanza scaltri e non molto ideologici. Sono molto ricchi, hanno un Pil pro capite tra ia più alti al mondo perché supera i 60mila dollari a testa, hanno una popolazione non molto numerosa e la fortuna di avere enormi riserve di gas che hanno saputo sfruttare molto bene.
La loro forza non è principalmente il petrolio ma il gas?
Sì, soprattutto il gas. È una risorsa che richiede molta più tecnologia per essere trasportata specialmente perché deve essere raffreddata. Occorre costruire i porti e necessita di ingenti investimenti. Il Qatar ha saputo utilizzarla al meglio. Comunque si sono mossi in molti campi, non solamente in questo: hanno organizzato i Mondiali di calcio, il Gran Premio di Formula Uno, il loro ruolo oggi non è che è la punta dell’iceberg di una realtà molto più grande.
Ci sono, però, almeno apparentemente, alcune contraddizioni nel loro modo di operare. Sul loro territorio ci sono le basi militari degli americani e dei turchi, ma il Paese ospita anche i capi politici di Hamas ed è il principale finanziatore dell’organizzazione palestinese. Come si spiega questo doppio binario?
Tutto sommato forse gli americani hanno preferito che la sede, l’headquarter di Hamas fosse in un Paese amico, piuttosto che in un Paese nemico come poteva essere l’Iran. Non sono in contraddizione solo loro, i qatarioti, ma un po’ tutti. Si è voluto creare una specie di Singapore del Medio Oriente, dove tutto è possibile, dove non ci sono etichette ideologiche così forti, ma interessi che si incrociano. Gli Stati Uniti stessi che hanno accettato di buon grado di avere una base lì pur sapendo che il Qatar aveva rapporti con Hamas, pensando che, comunque, in questa situazione almeno avrebbero potuto parlarci.
I rapporti con gli altri Paesi dell’area come sono?
Il Qatar ha avuto una crisi diplomatica importante con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, il Bahrein. Ci sono stati dei momenti difficili: gli aerei del Qatar non potevano sorvolare l’Arabia, dovevano fare un lungo giro. Il Paese ha subito anche un embargo: una storia molto complessa di alleanze e accuse reciproche. È sempre stato molto vicino ai Fratelli Musulmani, che invece sono invisi ad alcuni Paesi arabi, primo fra tutti l’Egitto. E Hamas è legata ai Fratelli Musulmani. Io consiglio a tutti di rileggersi la storia del Qatar: non si può capire la situazione attuale se non si conosce la sua storia almeno negli ultimi 70 anni.
Questa capacità di relazionarsi con tutti, di far prevalere gli interessi sull’ideologia, ne fa un po’ il simbolo di quella multilateralità che si sta affermando nei rapporti tra le nazioni?
Sì. E comunque è un Paese che è diventato indipendente solo nel 1971: fino ad allora era sotto la dominazione britannica. Ha 50 anni di storia, in cui si è sviluppato sotto una monarchia. E non è un caso, perché questa forma di governo permette una grande stabilità, anche se il Paese non è particolarmente democratico.
Chi sono i suoi alleati più stretti? Il primo è la Turchia?
In realtà hanno avuto la grande abilità di essere sempre un po’ amici e un po’ nemici di tutti: sono paragonabili alla Svizzera in Europa. Hanno saputo muoversi con scaltrezza, nonostante, appunto, un periodo difficile con l’Arabia Saudita e i suoi Paesi satelliti. Hanno sostenuto lo sforzo bellico dell’Iraq nella guerra con l’Iran, si sono opposti all’invasione del Kuwait. Tendono a stare a metà strada tra il mondo sciita e il mondo sunnita. Certamente non sono vicinissimi all’Arabia Saudita, però ora hanno ricucito un po’ anche con loro: la loro posizione è per certi versi isolazionista, ma contemporaneamente crocevia di tanti interessi. Questo è il dato. Non sono mai entrati in un blocco di alleanze forti.
Per questo, allora, rappresentano il Paese ideale per prendere l’iniziativa in Medio Oriente in questo momento? Hanno rapporti commerciali con gli israeliani, ospitano basi americane, ma nello stesso tempo hanno rapporti con i turchi, i Paesi arabi: sono un mediatore naturale in questa crisi?
Assolutamente sì. In questo contesto mi sembra che il loro obiettivo sia un po’ quello di diventare un Paese centrale nell’area, un punto di riferimento: una specie di Singapore del Medio Oriente. Quando hanno ospitato Al Jazeera hanno ottenuto un sacco di credibilità e di visibilità nel mondo intero e lo stesso è successo per quanto riguarda la mediazione esercitata nel conflitto israelo-palestinese. Non vogliono creare la nuova Persia o il nuovo Impero ottomano, come invece possono voler fare l’Iran o la Turchia, ma pensano a questa centralità politica ed economica nella regione e anche culturale, se si vuole. L’obiettivo di un piccolo Stato baciato dalla fortuna dal punto di vista economico.
Quale potrebbe essere allora il loro contributo alla soluzione della questione palestinese?
Bisognerà vedere quali saranno i loro rapporti con Hamas dopo la guerra: adesso hanno questo ruolo di mediazione, ma poi penso che dovranno decidere da che parte stare. Dovranno stabilire se continuare a finanziare Hamas e sostenerla oppure se mollarla e puntare su qualche altro cavallo. Ma è una scelta che opererebbero con scaltrezza, per loro non è un problema.
Dopo una crisi come questa Usa e Israele non permetteranno loro di continuare a supportare anche Hamas?
Adesso servono così, ma poi bisognerà vedere come si evolverà la situazione
Comunque non sarà il Qatar a dettare la linea, a stabilire, ad esempio, se si dovrà puntare sulla soluzione dei due Stati?
No, loro sono dei mediatori nati, cavalcheranno la mediazione qualsiasi essa sia. Dal loro punto di vista è anche comprensibile, insomma: non hanno la forza per imporre un’idea, ma possono imporre la loro capacità di parlare un po’ con tutti.
Potranno contribuire, invece, alla ricostruzione di Gaza?
Senz’altro. La Palestina in questi anni è stata ricostruita almeno tre o quattro volte. Questa sarà l’ennesima ricostruzione a cui tutti vorranno partecipare: l’Unione Europea, il Qatar, l’Arabia Saudita. Da questo punto di vista c’è spazio per tutti, di soldi ne arriveranno tantissimi, non è questo il problema. Quelli che sono arrivati in passato sono stati in larga parte sprecati: invece di pensare allo sviluppo economico si è creata una situazione che portava a nuove guerre, a nuove distruzioni e non al benessere della popolazione. I soldi per Gaza sono stati spesi in larga parte per armamenti, tunnel e pochissimo per la crescita economica: questo è poco ma sicuro. Con tutti i soldi che sono arrivati lì si poteva costruire il paradiso terrestre.
Può darsi, quindi, che adesso la ricostruzione venga condizionata a una soluzione politica? Per essere sicuri di non ricostruire qualcosa che poi verrà di nuovo abbattuto?
Tutti avevano puntato sul fatto che Hamas si sarebbe normalizzata. Oggi non è più il pensiero di nessuno, non si normalizzerà mai, rimarrà sempre un’organizzazione terroristica, pur molto popolare. I prossimi aiuti saranno accompagnati probabilmente da garanzie politiche che stavolta i soldi non verranno buttati via.
(Paolo Rossetti)
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