Chi ha paura dell’allungamento dell’età pensionabile? Perché resiste a tutto e a tutti questo tabù che forse, anzi probabilmente, alla più prudente delle verifiche sul campo si dimostrerebbe del tutto infondato? Lo invoca l’Unione europea, ce lo chiede il Fondo monetario internazionale, lo intima l’Ocse, lo prescrive la Banca d’Italia. Eppure, niente: il governo non decide. E non si capisce perché.
In una fase così critica per l’economia mondiale, in tempi nei quali tutte le famiglie del Vecchio Mondo devono tirare la cinghia, in un momento nel quale se un capofamiglia lascia il lavoro per raggiunti limiti di età lo fa spesso senza aver ancora avuto modo di vedere i propri figli sistemati con un’occupazione decente ebbene, quale sarebbe il problema? Andare a lavorare a 63 o 64 anni anziché 60 o 61? Ma ne siamo sicuri?
Non è come venti o anche solo dieci anni fa, quando i “baby-pensionati” non facevano tempo a sedersi sulla prima panchina che già si vedevano subissati di offerte di collaborazione professionale…ora no, ora soprattutto al centro-sud chi va in pensione deve farsi bastare l’assegnuccio delle Poste.
Eppure il tabù resta, granitico, se si pensa che il governo di centrodestra attualmente in carica non ha voluto ripristinare, nel suo programma elettorale, il cosiddetto “scalone” che nella precedente legislatura guidata già da Berlusconi l’allora ministro del welfare Roberto Maroni aveva introdotto per innalzare drasticamente, dal 2010, l’età minima alla quale si può andare in pensione. Quasi che quel provvedimento, pur escogitato dal centrodestra, si fosse rivelato troppo impopolare per essere ripristinato dopo che, nei 20 distruttivi mesi di governo, Prodi l’aveva revocato.
In realtà i tabù sono così: duri a morire. E pensare che ci sarebbe una maniera semplice, comoda, immediatamente esecutiva per allungare l’età pensionabile senza tanti problemi: fare a mezzo. Mezzo vantaggio a me Stato, mezzo vantaggio a te cittadino. Come?
Ragioniamoci. Quando oggi il signor Rossi, di anni 59, forte dei suoi 40 anni di contributi chiede e ottiene il pensionamento, cosa capita ai conti dello Stato? Capitano due conseguenze negative. La prima è che il signor Rossi smette di versare all’Inps i suoi contributi pensionistici; la seconda è che il signor Rossi comincia a incassare mensilmente la sua pensione.
Da una parte quindi l’Inps smette di incassare, dall’altra inizia a spendere. Effetto collaterale molto grave per il sistema economico in genere: sin dal primo mese, il signor Rossi si accorgerà che la sua pensione è pari, nella migliore delle ipotesi, all’80% del suo ultimo stipendio, quindi sarà portato a spendere meno, a consumare meno, nella speranza di farsi durare i soldi fino a fine mese.
Se invece a quello stesso signor Rossi lo Stato dicesse: caro lei, che sperava di andarsene in pensione, non c’è niente da fare. Deve rimanere e continuare a lavorare altri tre anni. Ma la metà dei contributi previdenziali che lei attualmente versa all’Inps, nei prossimi tre anni che noi le imponiamo di trascorrere al lavoro, li intascherà come aumento di stipendio.
In questo modo l’Inps scamperà del tutto uno dei due effetti negativi del pensionamento di Rossi (dovergli pagare la pensione) e preserverà, anche se dimezzato, l’introito legato ai contributi di Rossi. Il quale, con le tasche più piene grazie alla quota di contributi recuperata, consumerà un po’ di più, contribuendo a rianimare l’economia del Paese.
Ma se è così semplice e potenzialmente proficuo, perché il governo non lo fa? Una prima, possibile risposta è che non lo fa perché ha paura dei sindacati, che sulle pensioni dicono sempre no, per principio. Una seconda risposta è che non lo fa perché ha paura della piazza. E se la piazza fosse d’accordo?