Ve lo ricordate Theo Waigel? Era quel ministrone tedesco di dieci anni fa, arcignissimo responsabile del dicastero delle Finanze nel governo Khol, che sembrava avercela giurata per l’accanimento con cui non perdeva occasione per dire che secondo lui l’Italia era troppo lassista per entrare nell’euro sin dalla prima fase. Un tedescone con due sopracciglia a cespuglio e il grugno sempre arrabbiato, un inflessibile custode del rigore economico di Maastricht.
Ecco, Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia del governo Berlusconi, oggi fa pensare a Waigel. Severo, severissimo, quasi inverosimile nella sua durezza, a ripensare ai tempi – sei anni fa, mica sessanta – in cui la sua nomea internazionale era più legata ai diversi espedienti di “finanza creativa” che aveva saputo calare nei conti pubblici che non alla fama di tagliatore o “signor No” che si è invece meritato nell’ultimo anno.
Diciamo la verità, qualcosa è cambiato in lui. Tremonti era quello che cercava sempre il modo per quadrare i conti, sembrava il campione dell’“arte di arrangiarsi” nell’economia pubblica, ed era per questo duramente attaccato dall’opposizione. Oggi sembra più arcigno della buonanima di Andreatta, più rigido del peggior Ciampi, più intransigente di Draghi.
Cos’è successo? Beh, una prima ipotesi è che abbia ragione, e che effettivamente, schiacciati come siamo sotto una montagna di debito pubblico pari al 110% del nostro Pil – qualcosa come 1.700 miliardi di euro – l’Italia non possa permettersi di sgarrare neppure di un millimetro. Se lo facesse, pensa Tremonti, i compratori stranieri dei nostri titoli di Stato, che ci servono come l’aria per finanziarlo, questo debito, si tirerebbero indietro spaventati e noi non sapremmo più dove rimediare i quattrini con cui rimborsare i Bot che scadono.
Il ragionamento è giusto e suggestivo, e forse perfino vero. Anche se qualche dubbio lo autorizza la circostanza che l’80% dei compratori di questi titoli di Stato siamo noi, le famiglie italiane, per cui la vera entità del nostro debito pubblico, quella che si trova in mani straniere e in qualche modo “indipendenti” è minima, il grosso è un panno sporco che laviamo in famiglia, quindi niente di micidiale.
E soprattutto: che sostegno all’economia è stato, in concreto, nell’ultimo anno, quello fornito dal governo Berlusconi? Poca, pochissima roba. Ovvio che soprattutto nell’area “sociale” della nostra destra di governo serpeggi il malumore contro l’intransigenza di Tremonti. E che qualcuno ormai mormori che il ministro, forse divenuto consapevole dell’impossibilità, per lui, di fare ulteriore carriera in un centrodestra dominato ancora indiscutibilmente dal Cavaliere, con alcuni comprimari di peso, punti in realtà per il suo futuro pubblico a qualche altissima carica internazionale – dal Fondo monetario alla Banca mondiale – per ottenere la quale la patente di rigorista sia indispensabile.
Certo è che quella famosa “collegialità” rivendicata a gran voce dai ministri ex-An, col potente sostegno di Gianni Letta, Claudio Scajola e Renato Brunetta sarebbe un principio sacrosanto. Esempio: se lo scudo fiscale facesse rientrare 5 miliardi di euro nelle casse erariali, chi potrà decidere come impiegarli? Solo Tremonti o tutto il governo? Ovviamente la risposta giusta dovrebbe essere la seconda, ma l’interessato vota per la prima, con il peso interdittorio della Lega che lo difende a spada tratta – e si sa quanto la Lega conti, per gli equilibri della coalizione.
Per quale motivo poi la Lega sostenga così tanto il ministro che si è inventato la Banca del Mezzogiorno e che lascia fare il Ponte di Messina prima di tante altre opere pubbliche settentrionali più urgenti ed economicamente proficue, beh, è un autentico mistero. Per tutte queste ragioni è chiaro che la calma ripristinata da Berlusconi attorno a Tremonti e alle sue pretese di autonomia è soltanto una calma apparente. Soggetta a possibili e rapide destabilizzazioni.