La storia si ripete. La “querelle” tra Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, e i suoi colleghi di governo andata in onda in questi giorni perché un Pierino più Pierino dello stesso Tremonti qual è Renato Brunetta l’ha spiattellata ai quattro venti con un’intervista fin troppo severa al Corriere, altro non è che un “remake”.
Un “remake” di quanto accadde nel 2004, precedente governo Berlusconi, quando gli attriti tra Tremonti e Fini, ma in realtà fra Tremonti e tutti gli altri, condussero Berlusconi e Bossi (insieme, si badi bene: è questo il passaggio fondamentale per capire lo scenario di oggi) a chiedere al Professore di farsi da parte sostituendolo, non molto degnamente in verità, con il mite Domenico Siniscalco, fino ad allora obbediente direttore generale del Tesoro.
Allora come oggi non è tanto “quello che” Tremonti fa e dice, ma “come” lo fa che lo rende odioso a tutti. Banalmente, è insopportabile e gode ad esserlo. È sempre armato di una metaforica matita rossa e blu e segna gli errori a tutti. Con un’alterigia che nemmeno Obama. Con una sicurezza di sé che neppure Adam Smith.
Fatale lo scontro permanente con la corte berlusconiana in particolare, ma in genere con chiunque abbia un briciolo di amor proprio. Figuriamoci quel che può capitare con altri peperini come, appunto, Brunetta ma anche con un pezzo grosso come Scajola. Perfino quel sant’uomo di Gianni Letta, che ha in mano tutte le chiavi del cuore di Berlusconi ed è persona prudente e consapevole, rasenta l’accesso di bile quanto Tremonti gli spiattella davanti alla scrivania i suoi irremovibili “no”.
Ricordando inoltre il Tremonti ministro “prima maniera”, e ancor più il Tremonti leader economico della Forza Italia d’opposizione, i più sbalordiscono. Il primo era quello della finanza creativa e dell’opposizione ideologica ai parametri di Maastricht; il secondo è quello di un rigorismo austero, che ricorda il sopraccigliuto ex-ministro economico tedesco Otto Waigel (l’ultimo a rassegnarsi che la lira entrasse nell’euro): un rigorismo estremo da barzelletta.
E allora, cosa accadrà? Tutto è possibile fuorché quello che auspica l’opposizione e vagheggiano apertamente i giornali di sinistra, Repubblica in testa: cioè che il governo cada sullo scontro attorno a Tremonti. Il verticismo di questa coalizione è talmente arroccato attorno alla figura del premier e a quella del suo unico vero alleato “libero”, cioè Umberto Bossi, che si può scommettere sin d’ora sul massimo del dissesto possibile: il ripetersi del film di quattro anni fa.
Bossi, è vero, considera Tremonti un suo “garante politico” dentro il governo, ma non sacrificherebbe la coalizione solo per la faccina nervosetta del ministro. Semmai, potrebbe coccolarlo un po’ e fargli digerire, appunto, il remake del film di cinque anni fa.
Ma ammesso e non concesso che quel remake si verifichi: perché stavolta Berlusconi grane con l’Europa non ne vuole e in fondo non può nemmeno permettersele, per cui si tiene stretto Tremonti e striglia quanto può, e se proprio deve, i più intemperanti tra i colleghi “della spesa”. Quelli che, nell’insieme, vorrebbero riscrivere la Finanziaria 2010 per farle stanziare la bellezza di 17 miliardi di euro in più di esborsi.
Insomma, il governo val bene un capriccio. Si rassegni Brunetta, si metta l’animo in pace Scajola. Tremonti per ora non si tocca. Fin quando Silvio e Umberto non decideranno diversamente: il che per ora non gli conviene.
Quel che resta da capire è come stavolta Tremonti pensi di poter condurre l’economia italiana fuori dalle secche economiche (di bilancio pubblico, perché l’economia reale va bene) in presenza di un rapporto debito-pil del 120% e del deficit-pil del 5%. Non certo con quel magro “più 1 per cento” che si profila per il Pil dell’Azienda Italia nel 2010 e di cui pure, martedì, Tremonti ha parlato quasi con orgoglio.
E allora, cosa saprà inventarsi stavolta il Divo Giulio? Ammesso e non concesso che voglia e sappia ancora inventarsi qualcosa di creativo. O non pensi piuttosto, assodato che una leadership politica per lui non sembra più ipotizzabile, a una qualche altissima carica istituzionale internazionale, meta agognata da tanti prima di lui – Craxi, Amato, oggi D’Alema – con esiti di solito molto deludenti.