Dunque ci risiamo, tornano gli incentivi per l’auto. Non è che la Fiat “l’abbia spuntata”, la nuova ondata di sostegni fiscali alla rottamazione delle auto vecchie in cambio dell’acquisto di vetture ecologiche nasce anche dalla necessità, riconosciuta dal governo, di sostenere un settore economico trainante per i consumi e per la sana circolazione del sangue economico del Paese: industria dell’auto in Italia significa certo la Fiat Auto, con i suoi 40 mila dipendenti diretti e il suo indotto, ma significa anche grandi gruppi come Volkswagen, Psa, Toyota, Mercedes, che occupano decine di migliaia di persone nella filiera della distribuzione e della manutenzione.
Ben vengano i nuovi incentivi, dunque. Finché durano, almeno: perché, come ha riconosciuto lo stesso ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola, questo genere di interventi è una sorta di “doping”, di droga, che un settore economico può anche assorbire per un po’ di tempo se gli serve per superare una crisi congiunturale, ma deve poi superare, pena la sindrome da dipendenza.
Ma il punto che meno quadra è proprio il rapporto tra il governo “pro tempore” (già, perché la linea dell’attuale governo di centrodestra non cambia rispetto a quella che inaugurò nel ’93 l’allora governo di centrosinistra) e la Fiat, unica casa automobilistica a conservare in Italia molte produzioni dirette.
Si sa cosa auspica il governo: che la Fiat non soltanto non chiuda nessuno dei suoi attuali stabilimenti, da Termini Imerese a Pomigliano d’Arco e agli altri, ma al contrario s’impegni ad aumentare la produzione di auto che arriva dalle fabbriche nazionali, smettendola di trasferire nei suoi impianti all’estero (Polonia, Brasile, Turchia) quote sempre crescenti di linee di montaggio.
E qui casca l’asino, avrebbe detto Totò: perché le produzioni industriali “pesanti”, come sono quelle metalmeccaniche legate all’auto (non quelle elettroniche: che però non fanno grandi numeri occupazionali) sono ormai antieconomiche in Italia. Non solo in Italia, in verità: produrre auto conviene poco anche in Germania o Francia, ma lì, per lo meno, la struttura delle fabbriche supersistiti è meno polverizzata e quindi più competitiva di quelle italiane per ragioni di tipo fisico: meno impianti, molto più grandi.
La domanda che sorge spontanea, e va rivolta al governo, è dunque un po’ questa: come continuare a chiedere alla Fiat di mantenere in Italia a lungo produzioni antieconomiche, con ciò candidandosi a restare per sempre esposti al ricatto sociale dei tagli occupazionali che sarebbero comportati dalla chiusura di queste produzioni?
Certo, glielo si può chiedere sul breve e medio termine, ma sul lungo termine ciò che conterebbe forse di più sarebbe concentrare le magre risorse dell’erario nazionale e delle casse regionali nella promozione di attività economiche più compatibili con la struttura del nostro territorio e i costi fissi della nostra forza-lavoro.
Per la Sicilia si è parlato tanto, e invano, di infrastrutturazione turistica là dove oggi sorge Termini. Discorso analogo a quello fatto vent’anni fa per Bagnoli, nel quartiere siderurgico che l’Italsider ha dovuto smantellare nonostante un decennio di lotte sindacali e di sperperi di denaro pubblico.
Non possiamo ragionevolmente credere di ridurre l’Italia a una sorta di sconfinato stabilimento balneare con, alle spalle, un vialone di boutique, per carità: ma è anche chiaro che determinate condizioni infrastrutturali, legislative, paesaggistiche e, perché no, di civiltà (il welfare, con i suoi costi, è pur sempre un segno di civiltà) non possono e non debbono essere ignorati.
Incentivi quindi? Sì, ma per cosa?