Ma allora era possibile salvare la Innse! Allora le verifiche, le esplorazioni fatte dall’industriale che l’avrebbe voluta chiudere, Silvano Genta, non erano state così approfondite, così esaustive. La morale della stranissima, quasi sessantottina vicenda della Innocenti Sant’Eustachio di Lambrate è tutta qui: non sempre la capacità del singolo imprenditore, la sua lucidità e il suo impegno bastano a trovare la soluzione migliore per tutti, imprenditore compreso.
E va dato atto a Gianni Rinaldini, segretario della Fiom-Cgil, cioè dell’organizzazione sindacale oggi più “dura e pura” di tutte nella sua linea vetero-antagonista, di essersi saputo muovere sul mercato meglio di un banchiere d’affari. Già, perché il suo intervento è stato determinante per individuare in Attilio Camozzi, industriale bresciano titolare dell’omonimo (e serissimo) gruppo, un imprenditore disposto a investire per rilevare la fabbrica con tutti i suoi 49 dipendenti, liquidare Genta con 4 milioni di euro e andare avanti col lavoro, smontando l’accordo di cessione dei macchinari e dei capannoni a diversi destinatari che lo stesso Genta aveva imbastito e che avrebbe distrutto quei posti di lavoro fruttando meno anche a lui.
Camozzi è un calibro da novanta: ha 1850 dipendenti in 70 filiali e inizierà a dirottare sulla Innse le commesse “in esubero” delle altre sue fabbriche. Poi, c’è da scommetterci, farà di più e andrà avanti con le produzioni specifiche di Lambrate: ma intanto ha saputo impegnarsi, rischiare, mettere mano al portafoglio. Sotto l’impatto emotivo non trascurabile di una protesta sindacale vecchio stampo – non “innovativa”, come l’ha incongruamente definita Fausto Bertinotti – ma, al contrario, tradizionalissima: una sorta di sit-in non violento, molto più scenografico e mediaticamente incisivo di qualunque altro grazie al fatto che i loro promotori hanno scelto i dieci metri dal suolo di un carro-ponte per far sapere al mondo il loro “no” anziché incatenarsi al lampione o sdraiarsi sul pavimento di un capannone.
L’impressione è che in casi del genere contino non solo le intenzioni, ma anche le capacità e la determinazione nel cercare soluzioni positive. Non si possono né si debbono processare le intenzioni di Genta, ma postulato che fossero le migliori – curare i propri interessi senza nuocere a quelli degli operai – evidentemente non era stato abbastanza lucido e determinato nel perseguire una soluzione capace di soddisfare tutti. O banalmente non era stato capace di trovarla.
La protesta sindacale ha però trasferito il problema dalla dimensione privatissima del confronto tra un imprenditore e i suoi 49 dipendenti a rischio a quella, pubblica, del “caso sindacale e istituzionale” di rilievo nazionale. Grazie all’intervento del sindacato si sono mobilitate le istituzioni e soprattutto si è trovata rapidamente, e fortunatamente, una soluzione ragionevole e immediata.
Qualcuno, anni fa, aveva giustamente ironizzato contro le pretese dirigiste di una certa gestione di Palazzo Chigi che aveva tentato di fare del governo una “merchant bank dove non si parlava inglese”. Non sappiamo se Gianni Rinaldini l’inglese lo parli, ma sappiamo che stavolta ha saputo parlare la lingua più moderna che c’è, quella dell’interesse collettivo.