Ma allora, va contro gli interessi del Paese il banchiere che non approfitta dei “Tremonti bonds”? Ah, saperlo, si potrebbe rispondere, riprendendo un vecchio tormentone televisivo. La verità non la sa nessuno, ma il ministro dell’Economia che – giustamente in assoluto, ma anche un po’ opportunisticamente sul piano della demagogia – spara a zero sempre che può contro le banche, ha ripetuto nei giorni scorsi, a Cernobbio, il suo monito contro gli istituti di credito che non si avvalgono dei capitali offerti loro dallo Stato. Non lo fanno – o quantomeno, non nella misura auspicata dal governo – perché quei capitali gli vengono sì offerti “senza se e senza ma”, però a caro prezzo, mentre nelle ultime settimane la vivace ripresa delle Borse ha permesso agli istituti di credito di mezzo mondo di rimpinguare le loro casse, un po’ vuote per la crisi, rendendo meno impellente, appunto, il bisogno di nuovi capitali.
Ma la ricetta di Tremonti per le banche (sostanzialmente condivisa dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, e le convergenze tra i due finiscono qui…) non è l’unico punto controverso della politica economica del governo. Ce ne sono molti altri, come del resto in tutti i governi dei paesi industrializzati, che scrutano i segnali – finalmente numerosi – di uscita dalla crisi economica più grave dal ’29 ad oggi. Un punto critico è quello della disoccupazione. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nella sua lunga vita politica parlamentare ha sempre seguito con proprietà i macrotemi dell’economia, ha lanciato il suo grido d’allarme sull’imminente ondata di disoccupazione che, prevede, si abbatterà sul nostro Paese. Sempre da Cernobbio gli ha risposto a tono Tremonti, definendo “inimmaginabili” i fondi a disposizione del governo per gli ammortizzatori sociali (alias, la cassa integrazione).
Tremonti da una parte ha ragione ma dall’altra sorvola sul particolare che l’assegno della cassa integrazione nei fatti spesso dimezza il reddito realmente a disposizione di chi lo percepisce, deprimendone la propensione al consumo quando non spingendolo addirittura nell’indigenza. Un operaio specializzato che in un settore manifatturiero guadagni in concreto 1.800 euro netti al mese – tra salario di base, integrativo aziendale, straordinari e premi di produzione – rischia di ritrovarsi con 800 euro di cassa: come potrà mai riuscire a far fronte alle spese familiari con un crollo reddituale del 60 per cento?
Quindi, per carità: la cassa integrazione è meglio che niente, ma non è un toccasana. Il toccasana vero sarebbe una ripresa vera, e veramente internazionale, che però non è ancora alle viste. Non solo: l’altra indicibile verità è che i governi nazionali, soprattutto quelli dei Paesi meno potenti (insomma: una cosa è l’Italia, tutt’altra cosa sono Stati Uniti, Germania o Giappone) ben poco possono fare contro la crisi, per i gravosissimi “vincoli esterni” sulla politica economica che ormai il sistema impone a quasi tutti e in particolare ai Paesi dell’Unione europea. Ma perché questa lampante verità è, come si diceva prima, “inconfessabile”? Perché per qualunque governo, dichiarare la natura limitata della propria sovranità equivale a riconoscere un’impotenza, e quindi un’incapacità negoziale con i propri elettori e con le proprie controparti sociali, che nessun governo ama riconoscere. Tantomeno i governi, tutti a vario titolo un po’ populisti, che oggi guidano l’Europa: quello italiano, ma anche quelli francese e britannico.