C’è qualcosa di surreale, di davvero pirandelliano nel sussiego con cui le fonti istituzionali snocciolano, periodicamente, le loro stime sull’economia sommersa in Italia, dimostrando – proprio attraverso la dimensione enorme delle cifre in ballo, quanto inaffidabili possano essere: i numeri presentati più recentemente da Istat e Agenzia delle Entrate parlano di un fenomeno che si attesterebbe tra il 17% e il 19% del Pil, ovvero il doppio rispetto ai paesi europei più avanzati, il che significa che in Italia la ricchezza sottratta al sistema fiscale e contributivo oscillerebbe tra i 240 e i 270 miliardi di euro, pari a una perdita di gettito superiore ai 100 miliardi di euro l’anno, ossia più del 15% del totale delle entrate fiscali oggi raccolte.

Ma ci rendiamo conto? Significa che il 19% dell’economia nazionale non c’è. È nera. Attenzione: nera, ma non malavitosa. Nel sommerso non è computato il fatturato della droga, o della prostituzione. Aggiungendo le stime al riguardo alle altre, emerge un quadro delirante: un quarto del Paese ignoto all’anagrafe fiscale, e previdenziale, un quarto del Paese…fuorilegge.

È mai possibile? Ebbene, la risposta – per quanto possa sembrare assurda e insieme dolorosa – è una sola: è possibilissimo. Soprattutto perché lo Stato si è fermato a Eboli. Il nostro Sud è tuttora prevalentemente una sterminata vandea di inefficienze e connivenze. E né la sinistra di governo né l’attuale destra hanno mai voluto o saputo incidere con determinazione in un cancro socioeconomico che andrebbe semplicemente estirpato.

Perché mente chi afferma che il sommerso è l’unico modo con cui queste persone, queste terre, vivono: non è così, perché al contrario il sommerso consente illeciti guadagni e ingiusti arricchimenti a chi non si limita a evadere o eludere qualche tassa, ma arriva a costruire sistemi complessi di scientifica dissimulazione del lavoro, altrui naturalmente, che diviene oggetto di sfruttamento sistematico e spesso scellerato, con logiche e metodi a volte di assoluta crudeltà.

La gravità del problema diventa ancora più visibile se il fenomeno dell’evasione viene studiato nel suo andamento storico. Come si legge in una recente relazione dell’agenzia delle entrate, in soli cinque anni la ricchezza prodotta nascosta al fisco è aumentata di circa il 30% e l’evasione cumulata nello stesso periodo ha superato i 400 miliardi di euro, cifra che coincide con il volume di risorse impegnate in un quinquennio nel servizio sanitario nazionale e che supera del 25% l’impegno pubblico nell’Istruzione.

Ora, premesso che fa un po’ ridere prendere sul serio stime fondate su una così madornale incapacità dello Stato e delle sue strutture di monitorare il territorio, è comunque interessante sottolineare che in base agli ultimi dati istituzionali pubblicati, nel 2005 l’economia sommersa riguardava 5.544 mila attività lavorative svolte in modo irregolare, pari a circa 3 milioni di occupati a tempo pieno, ovvero l’irregolarità coinvolgerebbe oggi oltre il 12% del totale degli occupati, disfunzione che sta assumendo un carattere strutturale. E sul fronte europeo l’Italia si distingue fortemente in senso negativo rispetto ai primi 15 Paesi dell’area-euro, dove la quota di occupati irregolari sul Pil si attesta ampiamente sotto la media del 6%.

 

Ma in questo quadro di drammatico paradosso non va trascurato un altro dettaglio. Se lo Stato italiano potesse portare interamente nel computo del Prodotto interno lordo tutto il sommerso stimato, innalzandolo a quel 20% che le stime indicano, come d’incanto i nostri conti pubblici guarirebbero, perché il denominatore in base al quale viene calcolato quel 107% di debito pubblico rispetto al Pil e quel 5% di deficit rispetto al Pil che ci collocano tra i Paesi europei meno virtuosi, si innalzerebbe facendo subito scendere, in proporzione, quegli stessi parametri. Facendoli scendere ben bene, verso quote quasi fisiologiche.

 

Ma allora perché non buttare giù questo bicchiere amaro, riconoscere la gravità del fenomeno-sommerso e chiedere a Eurostat di permettere all’Italia una revisione ampliata della quota di sommerso che si può includere nel calcolo del Pil ai fini del patto di stabilità europeo? Forse una risposta ufficiale non c’è, indubbiamente però per lo Stato italiano sarebbe imbarazzante trarre vantaggio dalla propria incapacità di monitorare il territorio, l’economia e la società.

 

Eppure, nonostante ogni imbarazzo, il peso del fenomeno e la convenienza della rettifica creerà, se le cose non cambieranno presto (e come sperare che cambino, se non in peggio?), le premesse perché tutto questo diventi realtà. Il sommerso c’ha distrutti, il sommerso ci rifarà.