Perchè la Toyota ha comprato e ristrutturato fabbriche d’auto in Gran Bretagna, mandandovi i suoi ingegneri a gestire e molti operai a produrre (oltre che riciclando gran parte delle maestranze locali) e niente del genere si avvista per Termini Imerese?
La domanda è sorta spontanea in molti osservatori del “caso Termini”, i quali constatano come l’impianto automobilistico siciliano, in procinto di essere abbandonato dalla Fiat (avverrà nel 2012, ma tre anni sono un attimo, in termini industriali), non sia stato finora fatto oggetto di alcun interesse da parte di colossi stranieri dell’auto, neanche di quelli dei Paesi emergenti che potrebbero avere voglia, se non addirittura bisogno, di legittimarsi insediandosi direttamente sul mercato di uno dei Paesi leader del Vecchio Mondo. Per esempio, il colosso automobilistico Tata, che della Fiat è buon alleato.
La domanda trova due ordini di risposte, uno di tipo “macroeconomico”, l’altro di tipo “micropolitico”. Le risposte macroeconomiche sono presto riassunte.
1) Il “sistema Italia” impone sui costi d’impresa una serie di balzelli, non solo e non tanto fiscali quanto soprattutto “ambientali”, cioè organizzativi e logistici, che spaventano. L’“attrazione degli investimenti stranieri” in Italia è sempre stata fatta poco e male. I grandi capitali stranieri sono sempre venuti qui per investire sui nostri titoli di Stato e anche nella nostra Borsa, ma meno volentieri nelle infrastrutture stabili, come un grande impianto industriale. Basti pensare al nostro sistema portiale, così inefficiente, o viario, così disastrato. Produrre autovetture a Termini Imerese potrebbe sembrare conveniente, per poi venderle in Europa, ma a conti fatti sul piano logistico diventa tanto gravoso da far preferire produzioni remote e lunghe, comode spedizioni transoceaniche.
2) L’arrivo dei giapponesi in Gran Bretagna coincise con una fase storica in cui appunto i produttori nipponici avevano bisogno di legittimarsi in Europa con investimenti fissi importanti. Oggi questa è preistoria: i produttori dei Paesi emergenti non hanno più bisogno di legittimarsi con nessuno, si auto-legittimano con le loro produzioni, contraddistinte da un ottimo rapporto qualità-prezzo.
3) Infine, ai tempi dei grandi “transplant” giapponesi sul suo territorio, la Gran Bretagna aveva già una normativa sul lavoro che era ai minimi europei quanto a garanzie per il lavoratore. Lassù la gente poteva essere licenziata in quattro e quattr’otto, proprio come nei Paesi emergenti. E questa cosiddetta “flessibilità” rincuorò molto i ristrutturatori giapponesi.
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Fin qui le ragioni “macro”. Ci sono però anche quelle micro. Sulle quali il Sistema Italia dovrebbe farsi un accurato esame di coscienza. Siamo sicuri che la Fiat, la Confindustria e addirittura il governo gradirebbero veder riuscire un gruppo indiano o brasiliano o cinese là dove la grande azienda italiana è fallita? Veder sventolare bandiera d’oltreoceano dove c’era il simbolo del Lingotto?
E questo non tanto per sciovinismo quanto per la paura di portarsi dentro casa una concorrenza di imbarazzante efficienza, proprio come è accaduto a Taranto, quando la gestione giapponese impresse all’ex impianto Italsider una produttività che neanche a Tokio, e che lo Stato, vendendo tutto al gruppo Riva, dimostrò di non sapere o voler avallare. Ecco, sicuramente anche su Termini Imerese c’è una specie di “barriera anticorpale” contro qualcuno che dimostrasse più coraggio o più bravura della Fiat.
Vi ricordate il caso della ex Innocenti di Lambrate, che il proprietario voleva chiudere e gli operai difesero salendo sul tetto in un memorabile sit-in, che si concluse con l’avvento di un nuovo acquirente della fabbrica? Ecco: in Italia, a volte, i vincoli di sistema sono talmente forti e asfissianti da inibire le iniziative più coraggiose. Non vorremmo che questo fosse anche il caso di Termini Imerese.