La seduta del consiglio d’amministrazione con cui ieri, all’Unicredit, si è celebrato un precario armistizio tra le varie componenti dell’azionariato che vorrebbero espellere il capo carismatico del gruppo Alessandro Profumo e quelle invece più legate a lui e più caute nel pensare a una sua uscita è stata una brutta pagina nella storia della finanza italiana.



Un armistizio precario e provvisorio, filtrato perfino attraverso le sobrie righe del comunicato ufficiale del gruppo, secondo cui il Comitato Strategico (una specie di mini-consiglio d’amministrazione, assai più cruciale di quest’ultimo) ha vissuto “un confronto franco e acceso”. Una brutta pagina non perché Profumo sia insostituibile e non abbia le sue anche gravi colpe, ma per le logiche che si celano dietro la frattura.



Ufficialmente, all’ordine del giorno c’era il progetto voluto da Profumo di riaccorpamento all’interno dell’unica società capogruppo delle varie società bancarie autonome nelle quali UniCredit si è finora articolato: Unicredit Banca di Roma, UniCredit Banca, Unicredit Private Banking, Unicredit Corporate Banking e, infine, Banco di Sicilia. Un’operazione che, proprio in Italia, creerebbe un soggetto in cui è prevista una gestione da parte di tre capi rete: Gabriele Piccini, Piergiorgio Peluso e Dario Prunotto. Cui dovrebbero aggiungersi sette presidenti territoriali che coordineranno le diverse aree geografiche.



Un’impostazione troppo lontana “dalla base”, secondo i critici. Per non forzare lo scontro, i mediatori hanno convinto Profumo a prendere tempo e rinviare il varo del progetto al 13 aprile. Per ottenere da lui, nel frattempo, una serie di contropartite. Lui ha minacciato le dimissioni e di fronte a questo scenario anche i suoi detrattori non erano pronti a replicare tirando fuori un nome alternativo e convincente. Di qui, l’armistizio.

In effetti il maxi-accorpamento contraddice frontalmente la “filosofia” di articolazione territoriale e vocazionale delle varie banche che era stata perseguita in passato dallo stesso Profumo, con tutta la forza della sua credibilità di grande organizzatore, artefice di un’espansione che in dieci anni ha effettivamente proiettato Unicredit nel gotha delle banche europee e l’ha resa protagonista della più grande acquisizione oltreconfine mai fatta da una banca italiana, con l’acquisto della Hvb.

La crisi finanziaria ed economica – che ha pesantemente colpito Unicredit – e la necessità di tagliare i costi ha indotto oggi Profumo a progettare la revoca di quanto attuato dieci anni fa, con lo smantellamento delle strutture autonome e il riaccentramento di tutto. Già, ma così facendo, sarebbero state (o saranno) tante le teste da tagliare, soprattutto in quei ruoli d’oro e privi di impegni, come le poltrone dei consigli d’amministrazione periferici, su cui siedono i notabili locali del gruppo.

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Come già nel caso di Intesa Sanpaolo, le polemiche sul modello organizzativo celano in realtà banali e volgari questioni di interesse, questioni di lottizzazione e nomine. Il fronte del no al riaccorpamento è alimentato da tutti quelli che a Verona come a Torino come a Bologna, Roma e Palermo temono di perdere potere e prebende. In nome di un manager stimato e temuto, ancora molto potente ma né berlusconiano (anzi, semmai vicino al Pd) né più infallibile: perché sicuramente di errori la gestione Profumo ne ha comunque commessi tanti, in questo decennio di galoppante espansione, pur se ampiamente controbilanciati dai successi.

 

Quel che accadrà non è ancora chiaro. I contendenti si sono presi altre quattro settimane di tempo per negoziare col bilancino incarichi e favori, nella più schietta e deprimente tradizionale logica lottizzatrice italiana. Nessuno ha in testa un’idea gestionale alternativa. Profumo a centrocampo a sua volta dà più l’idea di star difendo il suo ruolo e il suo potere che non di aver chiara una strategia di riscatto dai problemi del più recente passato.

 

No, decisamente una brutta pagina, e non viene da dire: “Vinca il migliore”, ma tutt’al più “vinca il meno peggio”.