Ma allora cosa farà la Fiat, tra due o tre anni? Smobiliterà dall’Italia? Trasferirà armi e bagagli tutta la sua produzione all’estero, nei Paesi a basso costo del lavoro come il Brasile, la Turchia o la Polonia, dove già opera?

Una risposta “di cronaca” a questo interrogativo inquietante che ha seminato lo sconcerto sia negli ambienti sindacali che in quelli politici italiani c’è già, a volerla prendere per buona, ed è la smentita ufficiale opposta dalla Fiat alle voci che, appunto, ipotizzavano il disimpegno. Ma è stata chiaramente una smentita di facciata, di quelle inevitabili, che non convincono chiunque abbia un minimo di conoscenza delle dinamiche e delle logiche che agitano i grandi gruppi automobilistici.



Il settore dell’auto oggi si riassume in una decina di colossi: a partire da quello più vicino a noi si confrontano Fiat-Chrysler (abituiamoci a chiamarla così), Peugeot-Citroen, Nissan-Renault, Daimler (Mercedes), Volkswagen-Porsche, le giapponesi Toyota, Honda e Suzuki, Ford, General Motors, l’indiana Tata e le due grandi industrie cinesi statali, che hanno appena acquisito la svedese Volvo. Pallide comprimarie Mazda, Sangyogng, Hyundai, Samsung. I problemi di questi colossi sono comuni: calo della domanda di auto nuove e aumento di costi di produzione nei Paesi ricchi, boom delle domanda ma a basso potere d’acquisto nei Paesi emergenti, dove però anche produrre costa poco.



In questo macro-schema, il comportamento consequenziale è molto semplice: lasciare nei Paesi ricchi, ad alto costo di produzione, le fabbriche che sfornano i modelli più costosi, a più alta tecnologia, grado di rifinitura e margine di guadagno, che non risentono della crisi perché hanno un pubblico di ricchi che continuano a comprarli, e trasferire la produzione e l’offerta di prodotti nei Paesi in via di sviluppo dove, appunto, produrre costa poco e la domanda di auto a basso prezzo è molto forte.

Tutto qui, e non c’è bisogno di tanta scienza per capirlo. Una volta si eccepiva che produrre in India., Turchia, Corea o Brasile era pericoloso sul piano della qualità, perché la manodopera era meno qualificata, ma i fatti hanno ampiamente dimostrato che non è così e che con un po’ di buon training qualunque popolo esprime valide maestranze metal meccaniche.



Perché, allora, non fanno tutti così? Perché non trasferiscono gli impianti che – per parlare di Fiat – producono Panda, Seicento e Lancia Y (e magari un po’ di furgoncini) nel Sud del mondo, tenendo in Italia solo l’“alto di gamma”? La risposta vera è che la gamma Fiat non ha un livello autenticamente “alto” di vetture, livello alto per prezzo al pubblico e tasso di rifiniture. Tolte Ferrari (produzione d’elite e di nicchia) e Maserati (apprezzata ma in affanno) le auto Fiat sono praticamente tutte di livello medio.

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La Croma è una berlina decorosa ma abbastanza economica, la Lancia Phedra e la Lancia Thesys sono due macchinone di modestissima riuscita… E l’Alfa 159 non ha mai raggiunto il successo di una vera ammiraglia sportiva. Altro che Bmw o Audi o Mercedes: quelle sì, che piacciono anche agli sceicchi e possono raggiungere prezzi che contengono ampi margini di guadagno per i loro produttori!

 

Ecco, quindi, che il gruppo Fiat, con il suo attuale mix di prodotti – un po’ migliorato, innegabilmente, dall’integrazione con la gamma Chrysler, che però è già prodotta fuori Italia – avrebbe in fondo una sostanziale convenienza ad andare a produrre tutte le utilitarie all’estero, tagliando quasi completamente la produzione in Italia. Per fortuna non lo può fare: perché due secoli di lotte sindacali e politiche, che hanno consegnato il nostro Paese e alcuni altri alla dimensione sacrosanta del welfare state, non possono essere cancellati solo in ossequio alle esigenze dei bilanci, e questo ragionamento vale per l’Italia come per vari altri Paesi del Vecchio Mondo.

 

Non bisogna quindi vergognarci di opporre ragioni politico-sociali e schiettamente sindacali alle istanze di delocalizzazione della Fiat e dei gruppi come quello del Lingotto. È giusto che siano in qualche modo “costrette” – e poi per questo aiutate, per esempio con gli incentivi – a restare dove sono nate, perché solo così potranno continuare a produrre “in patria” finché…

 

Già: fino a quando? E a questa domanda si può dare una risposta confortante. Fino a quando i Paesi a bassi costi di produzione non vedranno finalmente alzarsi anche i loro costi. Come sta accadendo, ad esempio, nell’Est Europa e soprattutto in quegli Stati come Romania e Bulgaria già entrati nell’euro o quelli come la Croazia destinati a entrarvi presto. Il benessere, per fortuna, è una dimensione contagiosa, e perfino in Cina – dove ancora cinque o dieci anni fa si produceva in condizioni di neoschiavismo – si sta rafforzando nelle aree metropolitane un movimento sindacale in grado di difendere i diritti degli sfruttati, generando però l’effetto indotto di far salire i costi di produzione.

 

Insomma, i grandi gruppi industriali occidentali dell’auto che riusciranno a “tener duro” e non delocalizzare le produzioni “di casa” per un’altra decina d’anni ce l’avranno fatta. Perché nel 2020 produrre un’utilitaria a Mirafiori o a Canton costerà uguale. Per fortuna dei cantonesi.