Oggi parla Moody’s e crollano i mercati; domani sentenzia Standard and Poor’s, e crollano i mercati. Dopodomani starnutisce il capo economista di Morgan Stanley, e crollano i mercati. O si lascia andare al pessimismo l’amministratore delegato di Deutsche Bank…e crollano i mercati. Insomma, si direbbe che le borse internazionali non attendano di meglio che un qualunque pretesto per mostrare tutta la propria sfiducia nei confronti della “tenuta” dell’economia mondiale e in particolare dei Paesi dell’eurozona. È tutta colpa della speculazione?
In parte sì, come sempre: perché il (brutto) mestiere degli speculatori professionali, ricordiamocelo, consiste nell’approfittare dei fenomeni di mercato enfatizzati dall’emotività degli investitori più sprovveduti, cioè di tutte quelle fasi in cui i listini, come le valute, o salgono o scendono in modo troppo ampio e repentino rispetto alle cause sostanziali di queste variazioni.
È in questo genere di frangenti che gli speculatori s’infilano, facendo di tutto per accentuare ulteriormente i fenomeni e lucrare sulla loro normalizzazione: di tutto sul piano tecnico, di tutto sul piano mediatico e politico.
Ma il ruolo pur incisivo degli speculatori professionali spiega solo una parte del fenomeno. La spiegazione di fondo, purtroppo, è un’altra, assai meno semplice da “destrutturare” e soprattutto “guarire”. La spiegazione di fondo è che nell’area dell’euro – ma se si allarga l’analisi agli Stati Uniti e al Giappone la musica non cambia di molto – gli Stati si accorgono di avere di fronte a loro anni di grandi sacrifici finanziari, se vogliono ridurre il peso dell’enorme debito pubblico che schiaccia le loro economie.
Tutti gli Stati, e l’Italia non fra i primi: questa è una novità per il nostro Paese, indubbiamente positiva. Una novità che però non aiuta a risolvere il problema generale e che non nasce dal fatto che la nostra economia stia migliorando, quanto – piuttosto – dal nuovo orientamento dei grandi analisti della finanza pubblica mondiale, secondo i quali il fardello del debito pubblico, cioè del debito che lo Stato ha nei confronti dei suoi creditori, va misurato al netto del “tesoro” rappresentato dallo stock dei risparmi privati di quella stessa nazione. Ed è qui che le famiglie italiane, da sempre forti risparmiatrici (secondo solo al Giappone, nel mondo) svolgono il loro ruolo di “contrappeso” rispetto ai debiti statali.
Ma se il problema non è solo o non è tanto l’Italia può essere un merito della nostra politica economica, e di Tremonti che oggi la guida, o dei cromosomi degli italiani, ma non è di certo una soluzione del problema generale. Che si sostanzia in un continente abituato da troppo tempo a vivere al di sopra dei propri mezzi e a finanziare questo lusso con il debito pubblico. Ma soprattutto, in un continente inconsapevole del fatto che questa pacchia è finita, e deve finire.
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Ciò che accredita, nei mercati, lo scetticismo verso l’Eurozona è forse, più di ogni altra cosa, lo spettacolo sconcertante delle piazze ateniesi gremite di gente urlante, ferocemente contraria alle misure – pur non severissime – che il governo ha dovuto adottare per ottenere dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale i prestiti necessari per salvarsi dal fallimento.
Gente che ritiene possibile andare in pensione a 53 anni, in deroga al limite teorico di 60; che ritiene possibile intascare robusti salari pubblici e non andare quasi mai a lavorare; gente, insomma, abituato all’assistenzialismo. Chiaro che la cura da cavallo annunciata dal governo – con la riduzione dei salari del 30%, l’aumento dell’età pensionabile da 60 a 65 anni e l’aumento delle tasse – abbia suscitato la rivolta. Ma solo perché in troppi s’illudevano che il bengodi potesse durare.
E invece non può. Abbiamo voluto la globalizzazione veloce e indiscriminata? Eccone gli effetti. Le nostre economie devono oggi misurarsi con quelle di Paesi come la Cina o il Vietnam, dove salari e pensioni sono bassissimi, gli orari di lavoro lunghissimi, il sindacato inesistente, i diritti dei lavoratori minimi… e di conseguenza la competitività sui costi è altissima.
La moneta cattiva del “social dumping” dei Paesi di nuova industrializzazione sta scacciando la moneta buona delle conquiste sociali fatte dalla Vecchia Europa in tre-quattro secoli di guerre civili, rivoluzioni borghesi e proletarie, tirannicidi e democrazia. Per non soccombere, dobbiamo fare sacrifici, dobbiamo ridurre il welfare e ridurre il nostro stesso tenore di vita.
Non sarà né facile né indolore, ma è l’unica strada. Ovvio che i mercati siano scettici. Ma o l’Europa dimostra con i fatti di saper far sul serio, oppure il declino sarà non solo irreversibile ma rapidissimo.