Quattordici anni fa aveva scavato le trincee per costruire una resistenza a oltranza, e solo la convergenza della forza finanziaria degli scalatori, la benedizione di Palazzo Chigi e la solidale passività della Banca d’Italia era riuscita a sconfiggerlo. Stavolta Franco Bernabè s’è guardato attorno per cercare di allestire un difesa della sua linea in Telecom Italia e non ha trovato niente: quindi, pur se di fronte aveva solo la volontà – debole e informe ma concorde nello svendere – espressa dai suoi azionisti di maggioranza relativa, ha mollato. Un abbandono addolcito da 6,6 milioni di buonuscita, ma del resto questi sono i prezzi che circolano nella cosiddetta “alta finanza” a livello internazionale, anche quando il consuntivo dei manager che li intascano non è buono: e invece quello di Bernabè a Telecom non sarà stato brillante, ma nemmeno negativo, visto che tra gli ultimi tre anni scarsi di mandato e il precedente triennio è riuscito ad abbattere il debito di 8 miliardi di euro. Tanti in assoluto, e quindi onore al merito, ma – purtroppo per l’Italia – pochi rispetto a quello che sarebbe servito per ridare slancio all’azienda e rimetterla in condizioni di investire.

Insomma, se Bernabè esce sconfitto, lo fa con l’onore delle armi: non sarà riuscito a imporla, sarà stata perdente o forse lacunosa e tardiva, ma in testa l’ex presidente di Telecom Italia una strategia l’aveva. Quel che assorda è, invece, il silenzio strategico e prospettico di Generali, Mediobanca e Intesa, i tre soci italiani di Telco – la holding ormai vicina a passare sotto il controllo del quarto socio, la spagnola Telefonica – che controlla il 46% di Telecom. Il colosso assicurativo triestino, la banca d’affari di piazzetta Cuccia e la più grande banca d’Italia, pur di tirarsi fuori dalle secche di un’avventura dove – essendo entrate a 2,3 nel capitale Telecom e uscendovi a 0,55 euro accuseranno in sei anni perdite totali del 75% dell’investimento! – non sanno da tempo che pesci prendere.

Il guaio è che in questa fregola di limitare i danni stanno avallando la peggiore scelta possibile per il futuro di Telecom Italia, e del Paese di cui l’azienda prende il nome. Telefonica, infatti, ha almeno tre caratteristiche che la rendono “il peggior padrone possibile” per Telecom. È proporzionalmente indebitata quasi quanto Telecom, quindi non ha la forza finanziaria per investire; è focalizzata nel business in Sud America, dov’è in concorrenza diretta con Telecom; e ha interessi in una serie di mercati europei dove Telecom è ancora debole e assente e avrebbe potuto espandersi, ma certo oggi non le sarà più permesso. Nell’insieme, è un gruppo che ha e conserva fuori dall’Italia i suoi interessi prevalenti e, in un mercato che si sta restringendo e impoverendo, sarà fatalmente portato – anche se presto cominceranno a giurare il contrario – a scaricare sulla partecipata italiana i costi della crisi globale per difendere di più e meglio gli interessi in quella che resta la loro “madrepatria”, la Spagna.

Ecco perché diventa inderogabile, per gli interessi del Paese, impedire che Telefonica – nel futuro ruolo di azionista di controllo di Telecom – blocchi lo scorporo societario della rete telefonica dal gruppo e soprattutto proceda senza indugio a venderla. La vendita della rete non è stata mai decisa, finora, da Telecom, neanche da Bernabè, per quanto ai tempi della lunga e infruttuosa trattativa con i cinesi di Hutchison Wampoa, che controllano 3 Italia, era stato chiaro a tutti che al possibile partner orientale della rete non importava nulla e che quindi, se fosse diventato loro il controllo di Telecom, l’avrebbe venduta, pur avendo tutta l’intenzione di confermare in sella Bernabè che molti anni fa aveva lavorato per loro. Ma adesso “non si può non farla”.

Il valore della rete, però, potrà essere uno scoglio insuperabile, sempre ammesso e non concesso che il governo italiano e l’Agcom riescano a esercitare la necessaria “moral suasion” sui nuovi padroni spagnoli per convincerli o indurli a venderla. Il valore dell’infrastruttura si colloca fra 8 e 16 miliardi. La sua redditività è di circa 2 miliardi all’anno, ma è esclusivamente legata alla politica economica del governo sulle telecomunicazioni, perché il canone che la Rete incassa per far passare sui propri cavi i segnali telefonici degli operatori è stabilito dall’Agcom, quindi dal potere politico. Per cui, per chiunque sia il proprietario della Rete, avere contro il governo è “antigienico”, mentre essere controllati dal governo è rassicurante.

Questa è la ragione – unita al fatto che l’infrastruttura è unica, irripetibile e capillare – per cui la Rete scorporata potrebbe garantire sul lungo periodo il “servizio del debito” per più efficacemente di una società di servizi in concorrenza. Quindi, attaccata alla rete, potrebbe essere ceduta da Telecom una fetta di debito più che proporzionale alle dimensioni dei ricavi della Rete stessa, perché sono ricavi più redditizi e più stabili nel tempo. Una volta scorporata la rete e sottrattala al potere di Telecom, i nuovi soci – cioè la Cassa depositi e prestiti con il concorso degli altri operatori – dovrebbero poi riprendere a investire sulla banda larga e larghissima.

Il suo pieno sviluppo, fino alla confrontabilità con i livelli medi europei, significa per l’Italia porre le premesse di uno sviluppo del Pil nell’ordine dell’1,5%. È mai pensabile che una simile opportunità venga lasciata dal governo nelle mani di decisori stranieri?