I problemi di Telecom saranno alleviati dal calo dei compensi del presidente esecutivo Franco Bernabè e dell’amministratore delegato Marco Patuano? Con tutto il rispetto, è assai improbabile. Per un’azienda che nel 2011 ha perso 4,8 miliardi e nel 2012 un ulteriore miliardo e seicento milioni di euro – oltre a essersi deprezzata in Borsa fino al minimo storico di 0,5 euro per azione, che significa non capitalizzare neanche 8 miliardi di euro – suona quasi beffardo il fatto che il tandem di testa abbia intascato complessivamente 2,968 milioni (Bernabè) e 1,32 milioni (Patuano), in calo di 700 mila euro il primo e di 500 mila il secondo.
Ci vuol altro. Ben vengano infatti i superstipendi – per quanto deliranti siano – dei capi, se almeno fanno ciò che il mercato si attende da loro: trovare soluzioni salvifiche per un’azienda ancora straordinaria ma fiaccata – e per ora senza misurabili opportunità di riscatto – da un pesantissimo basto di debiti. Ma è proprio questo ciò che il mercato – e quel che più conta, i soci di controllo – addebitano alla gestione, ma soprattutto a Bernabè: non sanno fare strategie per il riscatto del gruppo.
È un’accusa fondata? E, soprattutto, è “solo” colpa dei manager, se Telecom è ferma in mezzo a un eterno guado? La risposta è che l’accusa è fondata, ma le colpe vere stanno altrove. E cerchiamo di capire perché. Telecom è il paradigma di come il grande turbocapitalismo all’americana sia, o possa essere, una specie di mostro antropofago che finisce con lo sbranare se stesso. Dopo tredici anni, è ancora alla prese con la digestione – che si pensava soltanto pesante e si è rivelata impossibile – del debito monstre scaricatovi in pancia dall’Opa della cordata-Colaninno nel ‘99 e dalle successive ingegnerie finanziarie operate durante la gestione Pirelli.
Ce la ricordiamo tutti, fu “la madre di tutte le Opa”, la più ricca fino ad allora effettuata in Europa. A onor di Bernabè va detto che, dopo aver clamorosamente sbagliato nel sottovalutare le intenzioni di Colaninno e la sua capacità e determinazione, fece di tutto per ostacolare l’Opa e giunse a offrire ai suoi amici tedeschi della Deutsche Telekom l’opportunità di lanciare una contro-Opa gradita dal consiglio uscente, quello designato dal “nocciolino” di controllo guidato dall’Ifil di Umberto Agnelli. Bernabè non voleva che Telecom venisse. sia pur indirettamente (tramite, cioè, l’allora società controllante Olivetti), caricata di debiti. Capiva, forse, che le “magnifiche sorti e progressive” delle “telecommunication companies”, all’epoca viste dagli analisti finanziari di tutto il mondo come delle inesauribili mucche da latte-filigranato, non fossero così sicure come apparivano.
E aveva ragione lui: la verità è che le aziende di questo tipo sono state, e oggi lo vediamo, le grandi vittime sacrificali di Internet, perché rispetto a quando il loro mestiere consisteva nel veicolare la voce, oggi veicolando dati con tariffe “flat” guadagnano e guadagneranno sempre meno. E invece quel colossale rapporto tra debiti e patrimonio che il mercato, quindici anni fa, immaginava sostenibile per loro, lo era appunto solo presupponendo quest’indefinita crescita di redditività.
Ma questa pur meritoria lucidità del Bernabè di ieri non toglie che a oggi le strategie dell’ex presidente dell’Eni e pupillo di Franco Reviglio per abbattere quel debito mostruoso si sono rivelate tutte deboli. Tanto che i suoi soci di controllo – Mediobanca, Generali, intesa e Telefonica, che attraverso Telco controllano il 22,6% di Telecom – sono a loro volta arcistufi di smenarci.
E allora? Allora Telecom deve fare qualcosa di straordinario per tagliare quel debito invalidante, un po’ come dovrebbe fare anche la Repubblica italiana. Come riuscirci? Semplice: decidendo quale delle “tre Telecom” sacrificare al mostro del debito. Già, perché le anime di Telecom Italia oggi sono tre: la rete italiana; i servizi italiani; la controllata brasiliana. Bernabè ha sempre pensato che vendere la rete sia un errore esiziale per Telecom: e ha sempre sostanzialmente lavorato contro ogni ipotesi, alzando l’asticella del prezzo (15 miliardi, si dice, sarebbe la cifra giusta per lui) a livelli inarrivabili.
Ma il suo è un teorema. Per fare soldi a palate un gruppo come Vodafone non ha alcun bisogno di disporre di una rete proprietaria, per esempio. Il Brasile, invece, rende assai meglio; i servizi italiani potrebbero rendere bene se fossero ristrutturati nei costi. Scegliere quale angolo sacrificare dei tre su cui poggia Telecom è difficile, ma resta il fatto che senza un colpo d’ala di razionalizzazione il gruppo non ce la farà a smarcarsi dal debito. Ed è questa oggettività che piano piano sta scavando la fossa a questa strategia attendista del capo-azienda.
P.S.: una volta, ai prezzi di Borsa attuali, si sarebbe detto che Telecom era scalabile: ma oggi non è più così. Chiunque volesse spendere gli 8 miliardi necessari oggi per lanciare un’Opa dovrebbe accollarseli tutti, perché il gruppo non solo non ha più leva finanziaria disponibile, ma resta troppo indebitato. E nessun colosso internazionale, tantomeno Telefonica – socia industriale di Telco – può permettersi spese pazze…