Come in un giallo di Agata Christie, l’assassino di Telecom torna sul luogo del delitto. E l’assassino, in questo caso, ha il nome generico di “sistema Paese” ma un cognome specifico, Partito democratico. D’ispirazione dalemiana, per la precisione. E’ questa la lettura da dare alla possibile “chiusura del cerchio” della Telecom Italia-story che potrebbe giocarsi nelle prossime settimane se dovesse concretizzarsi l’alleanza con i cinesi di Hutchison Wampoa.
Partiamo dal principio. Anzi dal prologo. Nel ’97 il governo Prodi decide di privatizzare Telecom e la vende in Borsa ricavandone appena 27.000 miliardi di lire, circa 14 miliardi di euro. Dentro l’azionariato si costituisce un ridicolo “nocciolino” di soci stabili, guidati con lo 0,7% dall’Ifil dei fratelli Agnelli. L’azienda è ricca da far paura, monopolista della telefonia fissa, leader indiscussa di quella mobile. Nel ’99 il governo D’Alema – ministro dell’Industria Pierluigi Bersani, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Franco Bassanini – avalla – a dir poco, ma per molti versi promuove – la maxi-Opa (per l’epoca, la più ricca del mondo) da 100 mila miliardi di vecchie lire, 50 miliardi di euro, lanciata su Telecom Italia dalla cordata di Roberto Colaninno e Chicco Gnutti, sostenuti da Mediobanca.
Con buona pace delle migliori intenzioni di Colaninno – l’unico che voleva sicuramente fare con Telecom un’operazione industriale a lungo termine – la scalata, che fu resa possibile dall’astensione del Tesoro, allora retto dal ministro Ciampi con Mario Draghi direttore generale e dalla Banca d’Italia governata da Antonio Fazio, si risolse nel sovraccaricare Telecom di tutti i debiti che erano stati contratti dagli scalatori. E gli scalatori, con l’opposizione indignata ma impotente del medesimo Colaninno, due anni dopo decisero di incassare le plusvalenze che ancora restavano tra il prezzo di Borsa e quello che avevano pagato, completando così l’opera di quegli speculatori che erano: e vendettero il pacchetto di controllo di Telecom alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera.
Con la gestione Pirelli sembrava che Telecom avesse trovato finalmente un padrone stabile, e tale voleva effettivamente essere Tronchetti. Ma non c’è riuscito, o “non l’hanno fatto riuscire”. Il mercato del settore stava cambiando. Il boom di internet aveva iniziato a erodere i margini della telefonia fissa, fenomeno tuttora in corso; e le tensioni finanziarie dei mercati, tra fine 2001 (Torri Gemelle) e crisi del 2002-2003, complicavano molto il piano di rientro dai debiti elaborato da Tronchetti. Le cose, insomma, non giravano bene e un’ondata di scandali, per la verità poi risoltisi in nulla, resero apparentemente indispensabile al “sistema finanziario” nazionale guidato da Mediobanca il cercare una soluzione proprietaria diversa, disimpegnando Tronchetti che con la sua Pirelli non aveva le spalle abbastanza forti da reggere il maggior imprevisto peso di Telecom.
Fu dunque nel 2008 che, alla gestione Tronchetti, subentrò quella attuale di Telco, cioè di quattro soci per tre quarti eterogenei rispetto al business (Generali, Mediobanca e Banca Intesa) e per l’ultimo quarto concorrente di Telecom: la spagnola Telefonica.
La gestione venne restituita al manager, universalmente stimato, che era stato “scalzato” da Colaninno & C., cioè Franco Bernabè, che pianificò un rientro del gruppo dalla montagna di debiti accumulata (circa 40 miliardi di euro). Ma la crisi finanziaria si aggravò, il business continuò a peggiorare… Telefonica non collaborava nel promesso sviluppo sui mercati esteri… Fu allora, un paio d’anni fa, che si iniziò a ragionare se fosse possibile o meno vendere la rete fissa allo Stato per abbattere il debito, ma su questa ipotesi il vertice di Telecom si schierò duramente contro, considerandola una specie di esproprio, come già aveva fatto peraltro Pirelli, opponendosi a una analoga iniziativa del governo Prodi.
E veniamo ai giorni nostri. Telecom perde soldi da tre anni, produce un margine lordo in calo costante, non può più seriamente pensare di restituire tutti i suoi debiti senza qualche operazione straordinaria. Sul mercato italiano c’è un operatore di Hong Kong, appunto Hutchison Wampoa, ricchissimo (ha una ventina di miliardi di dollari di liquidità) che ha investito nel nostro Paese 10 miliardi di euro in 10 anni, ha 3000 dipendenti diretti e 20 mila indiretti con la sua “3 Italia” e fornisce oggi telefonia mobile di terza e quarta generazione di buona qualità e “low cost” senza mai aver fatto utili finora, anche se con la fondata possibilità di farne quest’anno.
Siccome è ricco e crede all’Italia e all’Europa, e investe nell’ottica cinquantennale e non trimestrale (i cinesi ragionano a modo loro, e in questo caso vien da dire: per fortuna), è interessato a comprare le quote di Mediobanca, Generali e Intesa, conferendo 3 Italia dentro Telecom e ritrovandosi quindi con un 25-29% del capitale, come nuovo socio di riferimento. La cosa può convenire ai soci italiani che devono vendere perchè altrimenti dovrebbero mettere mano alla tasca. Ma a una condizione, però: che Telecom scorpori la rete fissa e la lasci passare in mani istituzionali, perchè è impensabile che un asset come quello possa essere venduto a un gruppo che diventa a controllo straniero.
La Cassa depositi e prestiti è da un anno pronta a comprarsela, la rete: probabilmente senza pagarla, ma accollandosi debiti e liberandone Telecom. Certo, oggi la rete frutta anche una buona redditività, che però è insufficiente a Telecom, che deve sia pagare i debiti sia gli investimenti sul business. Scaricando parecchi debiti alla Cassa, insieme con la Rete, i parametri patrimoniali e reddituali di Telecom si riequilibrerebbero, ma anche la Cassa sarebbe sicura di abbattere il debito perchè ragiona su tempi molto diversi, tipici della redditività delle infrastrutture, e può permettersi di investire meno.
Vissero tutti a lungo felici e contenti? Sì, a spese di Pantalone, però: nostre. Perchè tutto questo si deve alla pessima privatizzazione attuata dal governo Prodi e alla successiva, scellerata scelta di scaricare su Telecom Italia i debiti dell’Opa, scelta politica firma D’Alema di cui nessuno ha mai pagato pegno. Sta di fatto che, senza l’intervento pubblico, del Tesoro tramite la Cassa, oggi, i guai di Telecom non sarebbero sanabili. Quindi la vera morale della favole è questa: il Tesoro finirà con l’accollarsi una decina di miliardi di euro di debiti per riprendersi dopo 17 anni – dal ’97 al 2013 – solo una parte di quell’impero telefonico che aveva svenduto per intero a 14 miliardi.
E non basta: nei tredici anni di questa triste vicenda la politica della concorrenza in Italia è stata fatta nella telefonia in modo da non disturbare troppo il manovratore-Telecom, da non togliergli, cioè, troppi margini: i prezzi, altrimenti, avrebbero potuto essere oggi più bassi. E, per beffa, oggi l’unico operatore che pratichi veramente “prezzi popolari” nella telefonia, cioè proprio H3G, fondendosi con Telecom finirà chiaramente col rialzare almeno un po’, gratamente, le proprie tariffe…