Ultima chiamata per Telecom. Quando Moody’s e Standard and Poor’s si accorgono che qualcosa non va, di solito si è già molto oltre in baratro: ci si sguazza dentro! È quel che sta succedendo all’ex Sip. Che si è vista declassare il debito: 29 miliardi che non riesce più a ridurre, quantomeno non secondo le speranze, né i piani. Una storiaccia, che rischia stavolta davvero di privare l’Italia di una delle sue poche aziende per certi versi ancora eccellente. Che ha avuto nella giornata di ieri un ennesimo momento di rinvio. E che minaccia di avvitarsi nell’inazione. Ma andiamo con ordine, per cercare di capirne di più.
Svenduta nel ‘97 dal governo Prodi-Ciampi per 27 mila miliardi in ossequio al diktat sventatamente accettato dall’allora ministro Andreatta con il commissario europeo Van Miert (“Volete entrare in Europa? Regalate i gioielli di famiglia ai privati”), la Telecom venne poi scalata dalla lussemburghese Bell, di D’Alema e Berlusconi (pardon: dell’Unipol di Giovanni Consorte e della Hopa di Emilio “Chicco” Gnutti) nel 1999 con la benedizione interessata di Mediobanca e la gestione convinta ma ingenua di Roberto Colaninno. E si ritrovò, di lì a poco, indebitata di tutto l’onere finanziario, o quasi, che era servito a scalarla. Centomila miliardi di lire del ‘99, oggi ridotti – grazie però a una cura dimagrante da cavallo – appunto a 29 miliardi di euro.
Ancora troppi. Troppi oggi, insostenibili domani. La redditività delle telecommunication companies scende: la gente va on-line con le tariffe “flat” e si parla con skype, si messaggia con whatsApp, non paga più “a tempo”, ma paga solo l’accesso e poi fa gratuitamente quel che vuole. Intanto investire bisogna, per esempio nella rete mobile, e costa. Dunque la vecchia gallina dalle uova d’oro, il settore delle telecomunicazioni, non fa più uova. E per Telecom sarà sempre più difficile generare la cassa necessaria per pagare i dividendi, rimborsare i debiti, investire…
Tanto difficile che il presidente Franco Bernabè s’è deciso a scorporare la rete fissa e venderne almeno una parte allo Stato. Per lui è un po’ come per Sansone tagliarsi i capelli. Se s’è deciso dev’essere proprio consapevole delle grandi difficoltà all’orizzonte. Intanto gli è piovuta sul tavolo l’offerta dei cinesi di Hutchison Whampoa: comprare il 29,9% di Telecom conferendovi la loro 3 Italia e, in parte, pagando cash le azioni agli attuali soci di controllo: Telefonica (la Telecom spagnola), Mediobanca, Generali, Banca Intesa. I cinesi sono ricchi, solidi, internazionali. Non avrebbero conflitti d’interessi con Telecom. Soci ideali?
Dunque, vediamo. Se Telecom vendesse la rete incasserebbe tra i 10 e i 15 miliardi (tutto da stabilire); se i cinesi entrassero nel capitale conferendovi 3 Italia, la concorrenza delle tariffe nella telefonia mobile, in Italia, si ridurrebbe, a tutto discapito dei consumatori ma a vantaggio del conto economico degli operatori. Insomma, all’indomani dell’operazione, Telecom Italia ritroverebbe un miglior equilibrio contabile e, forse, un po’ di slancio per investire e svilupparsi dove si possono ancora fare soldi: Africa, Sudamerica, Far East, la stessa vecchia Europa.
Ma Telefonica dice no. E Mediobanca nicchia, come sempre, ma è più sul no. Telefonica dice no perché è entrata a suo tempo nel capitale al solo scopo di prevenire che Telecom andasse a romperle le uova nel paniere in Argentina e Brasile, dove è forte. Un socio in puro conflitto d’interessi. Mediobanca è perplessa contro qualunque cosa possa circoscrivere il suo portafoglio di interessi: e siccome una Telecom in mano ai cinesi non sarebbe più sua cliente ma lavorerebbe con Goldman Sachs, dice no. Generali e Intesa vogliono vendere, ma da sole non possono.
Allora cosa capita? Che si prenda tempo, sempre più tempo. Dimenticando che il tempo gioca contro. Contro gli interessi dell’azienda e dei suoi piccoli soci. Che infatti concordano con l’ipotesi-Cina o chiedono, in alternativa o in aggiunta, un aumento di capitale.
Lo scenario più probabile è che non si trovi la volontà politica di fare nessuna delle due cose finendo così con lasciar procedere inesorabilmente Telecom lungo la strada del declino. Anche perché la cessione della rete alla Cassa depositi e prestiti è una precondizione affinché il controllo di Telecom possa passare a un gruppo straniero (la rete è un asset di interesse nazionale strategico), ma non è chiaro a nessuno, oggi, se la Cdp la comprerà tutta o solo una quota… In un affare del genere, infatti, la chiarezza strategica dovrebbe generare la volontà politica, il che non è finora accaduto, mancando entrambe.
Perché ammesso che il piano di Bernabè sia chiaro almeno a lui, i suoi azionisti sono spaccati e il nuovo governo brancola nella nebbia.