Il piroscafo di Telecom naviga a vista nel pantano istituzionale italiano. In un mondo dove la velocità incalza inesorabilmente tutte le dinamiche, politiche, sociali ed economiche, Telecom rinvia. “Apre” al nuovo – e meno male – ma rinvia. Forse scorpora la rete, ma se ne riparla tra quindici giorni; forse si fonde con H3G, ma se ne riparla tra un mese. Nel frattempo, archivia il peggior trimestre della storia. È la iattura italiana: l’attendismo passivo, in attesa che risorga lo “stellone” nazionale e provveda a risolvere i problemi ingestiti.

Stavolta, va detto, la colpa non sembra essere di Franco Bernabè, il presidente con pieni poteri che sta anzi spingendo per entrambe le operazioni. Bernabè non ha sempre brillato in capacità previsionale. Una dozzina d’anni fa, quando gli analisti più lucidi del mercato delle telecomunicazioni avevano chiaramente previsto che la fibra ottica avrebbe sconvolto gli assetti della telefonia fissa, ironizzava sul fatto che portare una connettività da 10 mega al secondo nelle case della gente equivaleva a consegnare un’autobotte di crodino al signor Rossi che aveva ordinato due aperitivi… Quando Colaninno aveva già fatto il giro delle sette chiese preparando il terreno per la sua maxi-Opa a leva – peraltro madre di tutti i guai di Telecom -Bernabè faceva spallucce: “Non andrà da nessuna parte”, diceva.

Ma stavolta il manager ha capito. La possibilità che il gruppo riesca, con le sue sole attuali forze industriali e patrimoniali, a rispettare i piani di rimborso del debito netto che supera ancora i 29 miliardi di euro generando nel frattempo un po’ di utili, investendo ed evitando di dover fare della “macelleria sociale”, è una possibilità ormai irreale.

Per questo, dopo aver osteggiato per anni – anni – l’idea di uno scorporo della rete fissa, che è l’infrastruttura monopolistica nazionale su cui Telecom ha costruito e difeso il suo privilegio contro i concorrenti, Bernabè ha capito che deve scorporarla e aprirla ad altri soci: in cuor suo, contando probabilmente di conservarne il controllo. Ma comunque consapevole che non può tenerla tutta per sé: il che significa rinunciare a usarla come una clava per mazzolare i clienti e per conservare ancora, a quindici anni dalla cosiddetta liberalizzazione, il 75% della quota di mercato nel fisso. Scorporando la rete, Bernabè conta di “spurgare” in un colpo Telecom Italia di una decina di miliardi di euro di debiti.

Già – si potrebbe dire -, ma in tal modo scorporerebbe anche una redditività stabile e sicura nel tempo! Vero: la Rete rende, come una mucca da soldi. E rende in base a quel che l’Authority delle telecomunicazioni decide che debba rendere: si chiama “Rab”, in sigla, il parametro del guadagno sicuro che i “regolatori” assegnano alle società che detengono reti in monopolio: “Regulatory asset base”. Lo Stato, attraverso l’Authority, decide che la Rete debba guadagnare un tot, e tutti gli operatori che la utilizzano (ovvero proprio tutti, perché non si può fare a meno di usarla) vengono tosati in proporzione.

Quindi la società che gestisce la Rete ha un guadagno sicuro e stabile nel tempo. Che garantisce le banche, meglio di qualunque altro business, circa la possibilità di recuperare i loro prestiti. Ecco perché, se un rapporto “sano” tra la redditività e il debito di una società normale, che gestisca un business in concorrenza (di quelli che possono andar bene ma anche perdere soldi) è, poniamo, di 2 euro di debiti per ogni euro di redditività, nel caso delle reti monopoliste amministrate dallo Stato sale a 3 contro 1 se non a 4-1. Quindi, dando via la Rete allo Stato, Telecom può liberarsi di debiti più che proporzionali alla redditività di quel “pezzo” della sua attuale circonferenza aziendale.

Ma liberarsi dai debiti non basta, perché il problema di Telecom è anche l’ingessatura strategica. In Italia non può più crescere: il mercato è saturo, e la concorrenza che sul fisso è poca cosa ma comunque non molla, sul mobile è forte. Per crescere all’estero servirebbe investire, e l’onere del debito priva il gruppo di ogni capacità d’investimento. Inoltre, l’unica area dove Telecom è forte all’estero, cioè il Sudamerica con Brasile e Argentina, è bloccata da… un busillis.

Quando a fine 2007 Mediobanca, sempre lei, si impancò a disegnare il futuro della Telecom “post-Tronchetti”, individuò negli spagnoli di Telefonica i gonzi ai quali rifilare il ruolo del Cireneo, quello che condivide la croce del debito senza la gloria della risurrezione. E Telefonica finse di starci gratis, solo per prenotarsi un posto al sole. In realtà il colosso spagnolo – grande quasi il doppio di Telecom Italia, ma anche nel debito – vedeva nel gruppo italiano il proprio principale concorrente proprio in Sudamerica, e accettò questo ruolo atipico di esserne l’unico azionista di controllo, nonché primo socio per investimento, senza contare niente, proprio in cambio del diritto di veto contro tutte le possibili operazioni internazionali di Telecom. Una pura mossa interdittoria, che ha sortito i suoi effetti in pieno, perché Telecom si è ritrovata con le mani legate.

Poi c’è Mediobanca, che riteneva di essere la vera azionista di riferimento, grazie all’asse di fatto con la propria controllata Generali e all’amicizia con Banca Intesa. Cos’è accaduto? Che nel giro di cinque anni, gli ex-giovani al vertice di Mediobanca hanno dovuto mollare gran parte del potere che detenevano nelle Generali, accettando di nominare un top-manager come Mario Greco, finalmente indipendente, il quale ha deciso di fare subito ciò che chiunque altro avrebbe fatto da anni al suo posto, cioè cedere le partecipazioni “non strategiche”. E il fronte comune si è rotto anche con Intesa, dove Enrico Cucchiani vuol recuperare urgentemente quanta più cassa possibile. Quindi Mediobanca è sola a fronteggiare Telefonica, uscirebbe volentieri anch’essa da Telecom, ma vorrebbe farlo senza perdere Telecom come cliente, cosa che teme accadrebbe se prevalessero davvero i cinesi, e quindi rimane ostaggio del proprio stesso conflitto d’interessi.

Nel frattempo i conti vanno sempre peggio, e continueranno a deteriorarsi, perché è questa la strada segnata per il declino in corso delle “telecommunication companies”: veder sbriciolare i loro storici, grassi margini sotto i colpi della digilitalizzazione che rende “flat” (piatti) i ricavi di chi vende traffico telefonico.

Qualunque soluzione – cinesi o non cinesi – sarà meglio per Telecom rispetto all’attuale impasse. E a boicottare la fine dello status quo che sta soffocando l’azienda sono i due soci in conflitto d’interessi, Telefonica e Mediobanca. Tanto per essere chiari.