I cosiddetti “big” delle telecomunicazioni – le “Telco” – non hanno capito niente di Internet. Si erano illusi di cavalcare la Rete, sono finiti soffocati dalla Rete. Per questo, dopo aver fatto baldoria per dieci anni, si ritrovano oggi con le casse vuote, vere “cicale” della tecnologia. Mentre i big di Internet, che come formiche hanno penato per anni, macinano quattrini. Fregandoli alle Telco. Colpa di una intera generazione di manager asini. È questa, anche se politicamente scorretta, la sintesi necessaria del nuovo “risiko” che sta scandendo questa calda estate delle tlc, in tutto il mondo. Manager asini che hanno lasciato deperire colossi ancora quindici anni fa ricchissimi. Perchè? Com’è stato possibile? Prima di rispondere cerchiamo di riepilogare quel che sta succedendo.
Mentre in Italia Telecom gioca a scacchi con il colosso di Hong Kong Hutchison Wampoa, che nel nostro Paese controlla 3 Italia, ma che intanto tratta anche con Wind per una fusione nel “low-cost”, Vodafone, big del mobile anche in Italia e leader in vari paesi, ha appena scucito la montagna di 7,7 miliardi di euro per lanciare un’Opa su Kabel Deutschland, il più grande operatore via cavo tedesco, acquistando il quale diverrebbe co-leader in Germania insieme con Deutsche Telekom.
Intanto, il colosso malato Telefonica, leader in Spagna e fortissimo in Sudamerica, che in Italia controlla – senza contare nulla se non per i suoi veti – il 12% circa di Telecom, ha ceduto la sua controllata irlandese O2 Ireland proprio a Hutchinson Whampoa per 780 milioni: come somministrare un’aspirina a un malato di cancro, perchè Telefonica ha parametri d’indebitamento ancor più gravi di quelli della stessa Telecom.
I cinesi di Hutchison hanno acquistato una piccola compagnia telefonica in Austria e “sono compratori”, nel senso che avendo – nella loro conglomerata – tanti business anti-ciclici che rendono bene e avendo liquidità sono pronti a fare incetta di tlc a basso costo per cercare di restare nel gruppetto dei pochi che sopravviveranno. I russi di Vimpelcom, che controllano Wind, sono invece ricchissimi – non per merito ma per gas -, però non hanno alcun interesse per le tlc e vogliono venderle a qualcuno, anche se hanno forti pretese di prezzo.
Volendo si potrebbe continuare, ma non serve, perchè un solo dato è certo: tutti nelle tlc parlano con tutti per studiare acquisizioni e fusioni. Il motivo è chiaro: la redditività caratteristica di questo business è definitivamente diminuita e per tornare a far soldi bisogna mettere insieme clienti (e fatturato), ridurre i costi e rincarare le bollette. A scapito della gente che perderà il posto di lavoro e dei clienti che pagheranno di più.
Ma com’è possibile che dei colossi di questa forza si siano ridotti così? E qui torniamo all’asineria dei manager. Dieci-quindici anni fa, le telco ritennero di dover cavalcare il boom della rete, contendendosi i clienti a suon di ribassi tariffari fino a introdurre come formula fondamentale nella telefonia fissa (e, fatte le debiti proporzioni, anche in quella mobile) la tariffa “flat”: uno paga per accedere alla rete, poi una volta entrato fa quello che vuole. Il vecchio contascatti che aveva reso pingui le casse di tutte le telco venne superficialmente mandato in pensione. Un po’ come se le autostrade facessero pagare solo un euro al casello di entrata, indipendentemente dal fatto che uno poi, partendo da Milano, arrivi a Palermo o si fermi a Lodi. Una pura follia.
Inoltre, le telco non cavalcarono in proprio il business di internet, lasciando campo libero ai vari Google, Yahoo, e poi Facebook, Amazon, eBay, con l’aria saccente di chi dice: “So’ ragazzi, lasciamoli giocare”. Cos’è accaduto, nella realtà? Che, vinta l’insperata lotteria di far accedere a bassissimo prezzo i loro clienti in Rete, i big di Internet gli hanno offerto innanzitutto dei metodi per non dover più neanche telefonare a scatti (un esempio per tutti, il mitico Skype), con ciò chiudendo il principale, storico rubinetto di ricavi delle telco; e poi hanno aggiunto alla Rete una serie di altri servizi a valore aggiunto – dal commercio elettronico all’home banking fino ai social network con il loro potenziale i pubblicità – su cui hanno guadagnato sempre di più, senza pagare pedaggio a nessuno. E le telco lì, instupidite, a guardare.
Il bello è che poi tutti chiedono oggi alle telco gli investimenti necessari per la banda larga, dimenticandosi del fatto che essa serve agli operatori Internet per far viaggiare meglio i loro servizi, ma con le tariffe flat non serve alle telco per guadagnare di più. Più cretini di così, si muore.
E ora che gli Ott (over the top, come vengono definiti i big di Internet, proprio perchè operano “sul tetto” delle telco) spadroneggiano, le telco con voce flebile e tossicchiante cercano di recuperare terreno, senza riuscirci. Di più: fanno e rifanno i conti e si accorgono che, proiettando il calo della redditività nei prossimi due o tre anni sugli stessi ritmi attuali, non riusciranno più a rimborsare i debiti che hanno contratto – tutte, chi più chi meno – negli anni delle vacche grasse. Di qui la febbrile esigenza del risiko: mettersi insieme, mettere in comune i costi, tagliare i clienti, ridurre il numero dei concorrenti per rialzare le tariffe.
La morale? Semplice: l’insipienza e l’avidità dei manager asini viene pagata sempre dai lavoratori e dai consumatori. È questo che il risiko comporterà.
Tornando alle piccole cose italiane, il quadretto è semplice. Al di là degli ottimismi di parte, Telecom non riuscirà facilmente (i critici dicono che non riuscirà affatto) a ripagare i debiti e investire quel che dovrebbe investire senza tenere a stecchetto gli azionisti o tagliare gli organici. Per questo il suo capo Bernabè cerca soci nuovi e ricchi, che mettano dei soldi dentro l’azienda: quelli che ha o non vogliono saperne di restare a bordo (Generali e Intesa), o sono abbarbicati al sottopotere che gli dà quella posizione, ma non possono più giustificarne i costi (Mediobanca) o non vogliono vendere per continuare a zavorrare un concorrente, ma non hanno più fiato (Telefonica).
Bernabè dilaga, tra tante debolezze. Prende tempo e spera nel miracolo, ovvero nel successo della sua politica dei piccoli passi. Ha però varato uno scoporo della Rete fissa che nasce come operazione prodigiosa – la prima in Europa di tal genere, sospetto primato! – ma afferma di volerne tenere saldamente il controllo, accreditando quindi un’interpretazione gattopardiana dell’iniziativa: cambiare tutto per lasciare tutto tale e quale. Lo scorporo dovrebbe restituire redditività a Telecom: senaz star lì a entrare nel merito, basta vedere qual è stata la reazione della Borsa sul titolo per capire che a questo recupero crede solo Bernabè.
I cinesi di Hutchison Wampoa non amano più di tanto Telecom. Sono pronti a usare la loro forza finanziaria per mettere insieme 3 con un altro operatore; ma non sembrano volersi incaponire per Telecom e allora trattano anche con Wind. Ma a Telecom Italia comandano tutti e nessuno, e comunque il “nodo” della proprietà della Rete rende ogni scenario di vendita a stranieri impossibile: finchè la Rete resta nel gruppo Telecom, quest’ultimo non può certo essere comprato da uno straniero, che altrimenti acquisirebbe un asset strategico per il Paese, il che è vietato dalla golden share. Mentre a Wind comandano i russi, che vogliono vendere ma vogliono tanti soldi.
Riepilogando: Telecom sostanzialmente langue e rischia l’osso del collo; Wind e 3 non languono ma campicchiano. Vodafone Italia vive di luce e scelte riflesse dall’estero. Fastweb è straniera ed è ferma nella sua massa critica, in fondo mai decollata. Questo è il quadro autentico del Paese che sembrava, vent’anni fa, il più dinamico d’Europa nel settore delle tlc.