Finirà così. Finirà che i guadagni stratosferici intascati da tutti i “capitani coraggiosi” (come D’Alema definì Colaninno & Company) che scalarono Telecom Italia nel ‘99, e poi quelli che vendettero le azioni Tim aderendo all’Opa lanciata dalla gestione Tronchetti, li pagheremo noi, di tasca nostra. Li pagheremo noi perché i quattro operatori telefonici mobili presenti oggi in Italia diventeranno tre e i prezzi saliranno. Parola di Franco Bernabè.
E qui uno si ferma e drizza le orecchie. Perché il presidente esecutivo di Telecom Italia ed ex presidente dell’Eni, il trentino Bernabè, non è un tenerello perugina. È un osso durissimo che nel ’91, su segnalazione forte di Francesco Cossiga presidente della Repubblica, fu insediato nella commissione di controllo dei servizi segreti – non so se mi spiego – e due anni più tardi, pur avendo fatto il direttore finanziario dell’Eni durante tutte le trattative con la Montedison, uscì totalmente indenne dall’“affaire Enimont” (la madre di tutte le tangenti, per la quale si suicidarono l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e l’ex presidente della Ferruzzi Raul Gardini). Insomma, un tipo tosto.
E cos’ha mai detto, Bernabè? Ha detto che “il mercato mobile europeo chiede consolidamento. Noi continuiamo a credere che il modo più efficace per stabilizzare il nostro mercato mobile sia attraverso una riduzione del numero di giocatori e perseguiremo ogni opportunità concreta che si presenterà”.
Che significa consolidamento? Significa che se i concorrenti si riducono a tre, da quattro che sono, i prezzi salgono. Nel senso che il concorrente più aggressivo – ovvero, sul nostro mercato, 3 Italia, seguita da Wind – unendosi a un altro, non ha più la stessa ragione che aveva prima a “rompere il prezzo” e lo alza. E quindi pagheremo noi i profumati guadagni di Colaninno e gli altri. Quelli che parlano difficile lo chiamano “market repair”. In realtà, significa togliere di mezzo i concorrenti scomodi a tutto danno dei consumatori.
Il bello è che a guardarlo da sprovveduti, il settore delle telecomunicazioni che quindici anni fa sembrava la “gallina dalle uova d’oro” della situazione, fa oggi la parte della cenerentola. Poi guardi da vicino e vedi che, per esempio, Telecom Italia, nel primo semestre di cui ha reso noti ieri i dati, ha comunque realizzato un ebitda del 38%. Ci sono settori industriali importantissimi come l’auto che quando raggiungono un ebitda del 15% (la Fiat è ferma al 9%) si leccano i baffi, e questi telefonisti piangono miseria con più del doppio di redditività lorda?
Quando una Telecom si scaglia contro l’Autorità per le comunicazioni che taglia un po’ di tariffe dicendo che così non potrà più scorporare la rete; quando una Vodafone taglia 700 posti lamentando di non farcela, e poi macina utili; quando una Wind minaccia 2000 tagli se non avrà gli sgravi richiesti, c’è da chiedersi se sono tutti pazzi in questo settore o se davvero sono in crisi.
La risposta è che sono in crisi come lo era la cicala all’inizio dell’inverno, quando dopo aver cantato tutta l’estate si ritrovò senza provviste. Ovvero: guadagnano tutti ancora un sacco di soldi, salvo forse 3 che è in precario pareggio, ma si sono talmente riempiti di debiti negli anni passati che questi guadagni non gli bastano. E per salvarsi vogliono rialzare le tariffe e far pagare a noi i costi del loro scialo del passato.
E finirà così, perché la pressione ricattatoria di questi grandi gruppi sul sistema-Paese è troppo forte. Se Telecom Italia andasse conclamatamente a gambe all’aria, sarebbero migliaia e migliaia di posti di lavoro a rischio, Vodafone e Wind non si espandono più, la stessa 3 è ferma.
Qualcosa, però, accadrà. Ma per un qualche fattore esterno. Wind è in vendita, ma i suoi padroni – il gruppo russo Vimpelcom, che ha affiancato e prevalentemente rilevato il controllo dai norvegesi di Telenor – vagheggia cifre astronomiche per disfarsene, che nessuno vuol dargli. Vodafone è forte, potenzialmente compratrice, ma va prudente. Telecom ha appena dovuto svalutare il suo patrimonio di 2,2 miliardi, mandando quindi il semestre in perdita, e ha avuto la spiritosaggine di dire che il fallito matrimonio con 3 Italia sia appunto naufragato sulla valutazione incerta della stessa 3 – e non sui propri conti evidentemente tanto difficili da decifrare – anche solo un mese fa – da aver avuto bisogno, oggi, di una rettifica a 2,2 miliardi!
La verità è che chiunque “sposi” Telecom deve farlo rassegnandosi a metterci dentro tanti quattrini. Perché, con buona pace delle rassicurazioni del managament, cantare e portare la croce non si può. Telecom può ripagare i suoi debiti e pagare un dividendo, ma allora non può investire quanto dovrebbe e chi non investe perde mercato; oppure può pagare il dividendo e investire, ma allora non riuscirebbe a rimborsare i debiti; oppure può investire e pagare i debiti, ma allora non pagherebbe i dividendi. Almeno, così la pensano gli analisti finanziari più indipendenti.
I suoi azionisti di controllo attuali – Mediobanca, Telefonica, Banca Intesa e Generali – sono un’armata Brancaleone. Telefonica ha oltre 70 miliardi di debiti e ne sta spendendo altri 6 in Germania, non vuole mollare la presa su Telecom di cui è concorrente in Sud America per impedirle di muoversi, ma non è molto probabile che possa comprarsela, sarebbe la saga dei debiti. Generali e Intesa vogliono vendere, Mediobanca vorrebbe continuare a comandare senza scucire un soldo, come ha sempre fatto, ma non ci riesce più.
Quindi Bernabè vagheggia di nuovi soci di minoranza: che dovrebbero forse investire in Telecom per la sua bella faccia… Molto più facile che arrivi qualcuno da fuori, metta sul tavolo 10 miliardi di euro e porti a casa tutto il cucuzzaro: da padrone, e non da comparsa. Mandando a casa tutto il management, come prima ovvia decisione. Ma dovrà trattarsi di un santo, o di un temerario, perché prima di riprenderseli, quei soldi, dall’investimento, ci impiegherebbe (o ci impiegherà) molti anni.