C’è qualcosa di angosciante, più ancora che di deprimente, nello stillicidio di cronache che accompagnano il declino di Silvio Berlusconi come leader politico e come personaggio pubblico in Italia. Cronache giudiziarie, naturalmente. Tanto incalzanti e come predestinate da vanificare anche quel poco o quel tanto di dibattito politico che ancora gli esponenti più lucidi dei due opposti schieramenti tentavano di svolgere, al netto dei destini penali del Cavaliere.

A scompaginare nuovamente il confronto è arrivata ieri la sentenza (civile, questa) con cui la Cassazione ha definitivamente sancito che la Fininvest deve pagare 494 milioni di euro alla Cir per i danni arrecati sottraendole illecitamente il controllo della Mondadori. L’illecito consistette nell’aver coartato un’altra sentenza della Corte d’Appello di Roma del gennaio ‘91 attraverso la corruzione di uno dei tre giudici del collegio, quello incaricato di stendere materialmente la sentenza, Vittorio Metta, su iniziativa degli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, e su mandato di Berlusconi.

Penalmente, Metta e i tre legali sono già stati condannati definitivamente da anni per corruzione in atti giudiziari, Berlusconi è stato “prescritto”. A chi, difendendo il Cavaliere, ha sempre affermato che la corruzione di un giudice su tre non toglie del tutto fondatezza alla sentenza è facile replicare che distorcere la libertà di giudizio di un giudice su tre basta a inquinare la sentenza ed è comunque di per sé un gravissimo reato, a prescindere dal suo effetto, che comunque in quel caso fu esattamente quello che il corruttore materiale Previti e il suo mandante si aspettavano.

È angosciante il verdetto di ieri non perché non sia limpido nella costruzione giuridica e nell’impianto logico – basta leggere senza preconcetti quanto scrivono i giudici e ricostruire la vicenda storica della “guerra di Segrate” per il controllo della Mondadori per rendersene conto. È angosciante perché questo genere di eventi strappa inevitabilmente il dibattito sul futuro politico del nostro Paese dal livello istituzionale dove vorremmo restasse per ricondurlo alla crudele affermazione di quella celebre e odiosa copertina dell’Economist, dove campeggiava come titolo – sullo sfondo di una foto di Berlusconi – “unfit to lead Italy”, inadatto a governare l’Italia.

Un vecchio slogan del ‘68 proclamava: “Anche il personale è politico!”. E alla fine è questo il punto: se è vero che Berlusconi, come “dominus” indiscusso del gruppo Fininvest (e lo era, in quanto ne era stato il geniale fondatore e ne era l’unico azionista), aveva ordinato di insistere con tutti i mezzi, anche illeciti, nella guerra per il controllo della Mondadori, dando a Cesare Previti risorse illimitate e carta bianca per usare, appunto, qualunque mezzo utile al fine individuato, corruzione ci fu: ed è quanto afferma una sentenza passata in giudicato. Non solo, è anche quanto afferma la logica, se solo si scende nei dettagli e si riscontra, con un po’ di schifo non misto a pietà per la pochezza dei comportamenti umani, il paradosso di un giudice che mette agli atti di aver scritto in un giorno 167 pagine di sentenza… che in realtà era già stata scritta da tempo, e non nel suo ufficio e non da lui, ma nello studio di Previti e da altre mani; e ancora il paradosso di un magistrato che, dopo aver giurato fedeltà alla Costituzione, non solo si fa corrompere (e vien da aggiungere: per due lire, 400 milioni del ‘91 erano di che comprare un bell’appartamento, nient’altro!), ma poi fa assumere la figlia e se stesso, dimettendosi quattro anni dopo dalla magistratura, dallo studio del corruttore.

La verità è che questa vicenda è stata, in ventidue anni di storia giudiziaria, tra le più vivisezionate della storia della giustizia italiana ed è ormai chiarita in tutti i suoi gradi. L’unica area di inevitabile “presuntività” riguarda la natura del passaggio di ordini da Berlusconi a Previti, riguarda i dettagli infinitesimali di relazioni verbali interpersonali, che sono depositati nella coscienza di ciascuno, ma i fatti oggettivi sono acclarati. Poteva non sapere, Silvio Berlusconi? Chiunque abbia seguito quelle vicende mentre accadevano, chiunque abbia lavorato in Fininvest, chiunque conosca Berlusconi sa che della questione che più gli stava a cuore all’epoca, la conquista della Mondadori, si occupava personalmente, entrando in ogni dettaglio della strategia giudiziaria, interfacciando personalmente i legali – convinto di essere, come in parte, anche esperto di diritto – ed è impensabile che Previti abbia agito senza il suo consenso.

Ma in fondo la questione non sta più nel merito: la sentenza penale c’è, e da tanti anni. Oggi arriva, com’era inevitabile, la valutazione del danno civile arrecato alla parte lesa del reato sanzionato da quella sentenza. Chi ancora spera che Berlusconi conservi la sua “agibilità politica” come capo del centrodestra italiano non può che appellarsi al solito teorema della persecuzione giudiziaria, ma in questo caso fa particolarmente fatica, perché i fatti precedono di tre anni la famosa “discesa in campo” e di cinque anni la quotazione in Borsa di Mediaset, che segna l’apoteosi del potere finanziario e imprenditoriale di Berlusconi. Mancavano all’epoca, come dire, le “premesse” affinché ci fosse già la persecuzione o almeno l’accanimento che successivamente – nei toni se non nei fatti – indubbiamente sono sembrati esserci.

E non basta. Come quando in una casa nuova iniziano a fulminarsi una dopo l’altra tutte le lampadine – semplicemente perché sono state acquistate insieme e insieme sono state utilizzate e quindi stanno, sempre insieme, esaurendo la loro vita chimica – così le sentenze contro Berlusconi stanno arrivando tutte al pettine insieme, e altre se ne profilano che difficilmente sembrano poter avere esito positivo: l’appello nel processo Ruby, dopo la condanna in primo grado a sette anni per prostituzione minorile e concussione aggravata (aver fatto sesso consapevolmente con una minorenne, circostanza incerta, ed essere intervenuto con pressioni su pubblici funzionari per far derogare da una procedura di legge a favore della ragazza); la sentenza per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio, passato dall’Idv al Pdl nella scorsa legislatura, reo confesso; le indagini sul caso Tarantini, a Bari; l’istruttoria sui testimoni del processo Ruby. Insomma, una litania di mazzate giudiziarie in arrivo una dopo l’altra che impediscono, francamente, di proseguire qualunque discorso politico sull’uomo-Berlusconi, inchiodandolo a quell’odiosa copertina dell’Economist.

Tutt’altro discorso va invece fatto sul centrodestra e sugli eredi del contenuto politico del berlusconismo, da Angelino Alfano a Maurizio Lupi agli altri. La caduta personale di un leader, in un contesto normale e in un Paese normale, non dovrebbe segnare la fine di un movimento capace di attrarre il consenso di un terzo degli elettori. Ma, come ha ben detto il governatore “forzista” della Campania Stefano Caldoro, senza Berlusconi il Pdl rischia di implodere e scomparire come accadde al Psi di Craxi dopo la fuga del capo il Tunisia, e questo sia per il disonore della caduta del leader indiscusso, sia per la modestia dei colonnelli, selezionati fatalmente, nel tempo, sulla base prevalente del grado di acquiescente adesione al pensiero unico del capo e non sull’autonoma personalità politica e sulla individuale caratura elettorale.

Sarebbe un gran bene per il Paese se le parti sane – che sono tante, largamente prevalenti – del centrodestra italiano e dello stesso berlusconismo, saltassero in tempo giù dal treno di un leader che sta marciando verso la sconfitta definitiva e si ritrovassero in un altro luogo politico a costituire quella forza moderata, di centro o di centrodestra che dir si voglia, di cui il dibattito politico nazionale ha sempre avuto bisogno e che fino al ’94 non aveva mai avuto.