È encomiabile e un po’ commovente l’enfasi di Giuseppe Recchi nel difendere un assetto Telecom Italia come “public company” che non è stato generato da una precisa scelta dell’attuale management, né degli stessi ex soci di controllo, quelli che, come le galline del cartoon, sono “in fuga” dalle responsabilità. Recchi lo fa perché ci crede, impregnato di cultura americana della governance com’è. E perché in questo mood culturale ha la possibilità, peraltro meritata e fin d’ora ben gestita, di esprimere un ruolo centrale dopo i tre anni passati in Eni a scaldare, come da statuto, la sedia.
Però non sarà mai abbastanza la reiterazione di un concetto, che cioè una “vera” public company è un’azienda “troppo grande per essere controllata da un padrone”, non un’azienda che è stata mollata per resa incondizionata da vari soggetti che avevano tentato di rendersene padroni, com’è invece Telecom Italia. In un mondo dove il signor Carlos Slim è padrone di America Movil, o Mikhail Fridman di Vimpelcom, o Li Ka Shing di Hutchison Whampoa, si può essere ben grandi senza essere “public”. È invece una public company Vodafone, ma ciò accade, oggi, fisiologicamente, per il suo costante crescere in redditività e dimensioni, per cui oggi è “inscalabile” da tutti, difesa dalla propria stessa stazza economica.
L’atteggiamento di Recchi, ma anche e soprattutto del pur bravo e perbene amministratore delegato Patuano, su questa storia della public company è polivalente. Da una parte ricorda quello della volpe verso l’uva attaccata a un tralcio troppo alto per i suoi salti: “L’uva è acerba”, dice il furbo animale della favola classica, per dissimulare il fatto che non riusciva a raggiungerla. Telecom è “public” perché nessuno l’ha voluta, neanche i cinesi di H3G per non tirar fuori un paio di miliardi, neanche Sawiris, che ne aveva offerti tre ma solo a chiacchiere, e non perché – come invece Vodafone – è troppo grande e troppo ricca per essere scalata.
Dall’altra parte è invece del tutto sincero, quest’atteggiamento, perché descrive, sia pur nell’involontarietà dei due interessati, l’assoluto sollievo di entrambi alla situazione in cui si sono venuti a trovare, con un gruppo di soci italiani finanziari da sempre eppure molto ingerenti nella gestione che si stanno finalmente squagliando e un socio cosiddetto “industriale”, in realtà concorrente e inibitore, che ha capito però di non poter dettare legge in casa Telecom perché sarebbe “stato troppo” perfino per la modesta cultura antitrust dell’America Latina.
E allora Recchi e Patuano sono oggi due eroi per caso. Autonomi come due manager di una vera public company, che vera non è perché metà azionariato se ne sta scappando all’insegna del motto “pochi, maledetti e subito” e l’altra metà sta dentro e lì resta per vigilare e accedere a informazioni privilegiate ma non ha speranza di dettar legge perché qualcuno, vivaddio, protesterebbe.