Quanto ha senso festeggiare per un “male minore”? L’accordo firmato tra Alitalia ed Etihad che rende il vettore degli Emirati Arabi primo azionista al 49% di quella che fu la compagnia di bandiera italiana è senz’altro, per l’appunto, un male minore, preferibile quindi a qualunque altra soluzione concreta che si potesse dare all’impasse dell’azienda. Anche perché alternative “virtuose” nell’ultimo anno non se n’erano profilate, e quindi le alternative erano tutte imbarazzanti etichettatura di una sostanziale cessione delle rotte e degli aerei a qualche colosso straniero che avrebbe solo acquisito asset ma non garantito né occupazione, né business all’Alitalia come azienda. Gli arabi invece ci proveranno, perché conviene anche a loro.



Bene ha sintetizzato Luigi Angeletti, segretario generale della Uil: “L’accordo tra Alitalia e Etihad è il migliore che potessimo concepire perché la compagnia aerea emiratina, a differenza delle compagnie europee, non è concorrenziale ma assolutamente complementare. Noi abbiamo popolazione, mercato e geografia, loro hanno le risorse economiche: la combinazione di questi fattori può realisticamente consentire di avere una compagnia aerea a ‘cinque stelle’”.



Eppure l’accordo raggiunto è e resta un ripiego rispetto al progetto originario, che è fallito e va ricordato come tale non per ludibrio di chi lo volle ma per istruzione di chi in futuro volesse replicare sortite del genere su casi analoghi di aziende in crisi irreversibile. La cordata dei “patrioti” messa insieme nel 2008 da Roberto Colaninno e Banca Intesa San Paolo, con la regia del governo Berlusconi e in particolare dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ha fallito tutti i suoi obiettivi, e ha bruciato circa un miliardo di euro in quattro anni senza raggiungere l’obiettivo di riportare la compagnia all’equilibrio economico.



Col totale delle risorse investite dallo Stato per rendere possibile quel salvataggio, sarebbe stato possibile scalare in Borsa l’Air France, il colosso francese che fu chiamato a bordo col 25% del capitale della nuova Alitalia con l’implicita promessa di lasciargliela prima o poi assorbire nella sua orbita e che invece non solo ha voluto disimpegnarsi da quella responsabilità, ma ha anche e soprattutto vissuto anni di crisi altrettanto grave anche in casa sua, a dimostrazione che le dimensioni colossali non sono l’unico requisito necessario per trasformare un business difficile e “avaro” in qualcosa di redditizio. Tra l’altro, Credit Agricole con Banca Intesa, Air France in Aitalia e Telefonica in Telecom sono tre colossi stranieri che hanno tentato la strada della “scalata” strisciante a un grande gruppo italiano e ne sono usciti con le ossa rotte: è bene che si sappia.

Per la cronaca, l’altra mattina l’assemblea dell’Alitalia ha approvato il piano e ha approvato l’aumento di capitale fino a 300 milioni deciso dal Cda di venerdì scorso. Si è aperta così una nuova pagina nella storia di Alitalia: l’accordo con Etihad prevede infatti che la compagnia emiratina investa 560 milioni per rilevare il 49% dell’aviolinea e riconduca alla redditività il vettore nel 2017, con un obiettivo di 23 milioni di passeggeri nel 2018 e 7 nuove rotte intercontinentali.

Il contorno sindacale della vicenda, sia detto per inciso, è stato il solito casino all’italiana: la Uilt e le associazioni professionali di settore hanno dato l’ok al nuovo contratto nazionale del trasporto aereo e all’intesa sul costo del lavoro che consentirà 31 milioni di risparmi alla compagnia soltanto la scorsa notte (l’avessero dato di giorno non sarebbe sembrata una scelta altrettanto sofferta). Mentre gli addetti di terra Alitalia di Fiumicino hanno minacciato una protesta per tutto il fine settimana, con la possibile presentazione di certificati medici “di massa” che giustificassero l’assenza dal lavoro in barba al codice di autoregolamentazione degli scioperi, e poi non ne hanno fatto niente: meno male.

Resta una nuvola di precarietà per la vomitevole ipocrisia europea, che ha inchiodato gli arabi al 49% del capitale della nuova Alitalia, per questa originale interpretazione del concetto di “controllo”, per cui un soggetto extraeuropeo non può avere più del 49% di una compagnia europea, anche se tutti gli altri soci che insieme detengono il 51% non hanno alcuna intenzione di smenarci più un euro…